Ogni 23 maggio l’Italia si raccoglie sotto l’Albero Falcone, a Palermo, per commemorare il giudice ucciso dalla mafia. Ma quest’anno, a 33 anni dalla strage di Capaci, quel minuto di silenzio – che dovrebbe unire – ha spaccato tutto. L’orologio segnava le 17:48 quando è stato suonato il silenzio. Dieci minuti prima dell’ora esatta dell’attentato. Un anticipo che è sembrato una cerniera chiusa in faccia a chi, come migliaia di studenti e associazioni, stava arrivando per esserci davvero.
Una scelta che non è stata spiegata. Ufficialmente un errore, forse per motivi di ordine pubblico. Ma i manifestanti, rimasti fuori dalla coreografia istituzionale, hanno sentito tutta l’amarezza di un’esclusione deliberata. “Non volevano il confronto”, ha detto Jamil El Sadi di Our Voice. “Un’offesa alle vittime”, ha aggiunto un giovane della Cgil.
Il sospetto che tutto fosse stato calcolato per evitare proteste ha preso corpo tra le urla di “Vergogna!”, “Giù le mani da Falcone!”, “Basta passerelle!”.
L’equivoco che non convince nessuno
Pietro Grasso, ex presidente del Senato e volto simbolo dell’antimafia istituzionale, ha parlato di un “grande equivoco”. “Mi hanno fatto iniziare prima perché pensavano che il corteo fosse già arrivato”, ha detto. La Fondazione Falcone ha definito tutto una “papera”, un termine che, nelle intenzioni, voleva essere un riferimento affettuoso alla nota collezione di papere del giudice Giovanni Falcone, oggi esposta nel Museo del Presente. Ma la leggerezza semantica ha solo aumentato la rabbia.
Perché a Palermo, quando si tratta di memoria, le parole sono pietre. E quella commemorazione spezzata è diventata il simbolo di una distanza che si allarga da anni: tra pezzi diversi del frantumato mondo dell’antimafia che non è certo in buona salute.
Due antimafie, un solo silenzio tradito
Salvatore Borsellino ha parlato di “tranello”. Leoluca Orlando, con parole pesanti, ha ricordato che “in trentadue anni non era mai successo”. La Cgil ha denunciato una “distinzione tra antimafia celebrativa e quella popolare, che chiede anche diritti”.
C’era chi voleva ricordare Falcone e si è trovato davanti un palco smontato. Chi voleva tacere per onorare le vittime e si è sentito respinto da un cerimoniale chiuso, sbrigativo, blindato. “Hanno tolto ai palermitani il loro minuto”, ha detto Roberta Gatani della Casa di Paolo.
I cittadini, arrivati alle 17:58 con i figli per stringersi sotto il Ficus di via Notarbartolo, hanno trovato solo i resti della cerimonia. “Siamo qui per ricordare e non siamo stati accolti. Questa è una sconfitta”, ha raccontato una giovane partecipante ai microfoni di LiveSicilia. E non aveva torto.
Le radici profonde di una divisione
Non è la prima volta. Nel 2023 la polizia manganellava i cortei studenteschi. Nel 2019 Claudio Fava disertava per protesta contro la presenza di Salvini. Ogni anno, sotto l’Albero Falcone, si replica la stessa scena: da una parte le autorità, dall’altra chi chiede verità. Eppure Giovanni Falcone fu isolato, osteggiato, deriso. La sua memoria, oggi, rischia di subire lo stesso destino: essere usata come ornamento da chi ha paura delle sue verità.
La memoria “non è un cronometro”, ha detto Maria Falcone. Ma per chi lotta ancora, quel minuto esatto è tutto: è il momento in cui la Storia si ferma, si guarda in faccia, e si prende la responsabilità di scegliere da che parte stare.
La riforma della giustizia che smonta la memoria
Ed è proprio questo il punto: mentre si discute di un anticipo di dieci minuti, il governo lavora per demolire l’edificio di giustizia costruito anche sul sangue di Falcone. Dalla separazione delle carriere alla compressione dell’autonomia della magistratura, l’offensiva in corso non è meno pericolosa delle bombe di Capaci.
Si celebra chi ha combattuto la mafia mentre si smontano gli strumenti per combatterla. Si tace alle 17:48, mentre la giustizia muore ogni giorno alle 17:59.