La ‘ndrangheta è la mafia 2.0. Ma viene sottovalutata da tutti. Dall’ultima relazione della Dia emerge che le cosche calabresi sono quelle più al passo coi tempi

“Arcaica nella struttura ma moderna nella strategia”, la ‘ndrangheta è ormai la più pericolosa delle organizzazioni criminali italiane. Sembra un paradosso ma è proprio con questa dicotomia, una sorta di sacro e profano criminale, che la mafia calabrese viene descritta all’interno dell’ultimo report della Direzione investigativa antimafia (Dia). Una mafia che non solo vive appesa tra due mondi all’apparenza distanti, quello legato alla famiglia e le tradizioni e quello relativo al progresso e alle innovazioni tecnologiche, ma è riuscita addirittura a dominarli e farli convivere. Se da un lato è “capace di creare e rafforzare sempre di più i propri vincoli associativi interni, creando seguito e consenso soprattutto nelle aree a forte sofferenza economica” allo stesso tempo “è in grado di adattarsi alle evoluzioni del contesto esterno, nazionale ed internazionale, tenendosi al passo con i fenomeni di progresso e globalizzazione”.

TRA PASSATO E FUTURO. Per farlo, come scoperto dalla Dia, le ‘ndrine ricorrono “alle giovani leve che vengono mandate fuori Regione a istruirsi e formarsi per poi mettere a loro disposizione il bagaglio conoscitivo accumulato”. Professionalità che hanno permesso alla mafia calabrese, come emerso in diverse indagini del procuratore capo Nicola Gratteri (nella foto), di affacciarsi perfino sul mondo high tech, diventando capace di truffe informatiche legate al complesso mondo delle cripto valute, o di scoprire in anticipo opportunità di sviluppo come quelle “offerte dai Paesi dell’Est europeo” in cui “hanno fatto ingenti investimenti, in diverse aree, anche grazie ai fondi strutturali dell’Ue”.

Proprio questa capacità di comprendere il mondo e i suoi cambiamenti, pur restando ancorata alle proprie tradizioni, è emerso nel modus operandi che la mafia calabrese attua nelle altre regioni d’Italia o nei Paesi esteri in cui si insedia. Sostanzialmente “la ‘ndrangheta replica i propri modelli di origine, ribadendo i valori fondativi delle consorterie, facendo leva sui mai tramontati vincoli tradizionali: il santino di San Michele Arcangelo parzialmente combusto, rinvenuto nella tasca del diciottenne di San Luca, ucciso a Duisburg nella tragica notte di Ferragosto del 2007, ne è l’emblema”. A preoccupare la Dia, c’è soprattutto il fatto che la mafia calabrese sia spesso banalizzata quando non del tutto sminuita e ridotta al rango di “mafia minore”.

WELFARE CRIMINALE. Un errore imperdonabile contro cui si scaglia il report spiegando che “le Istituzioni, a qualunque livello, ma anche la comunità intera devono avere ben chiara la portata del fenomeno” perché è l’ora di dare un taglio al “negazionismo fin qui sostenuto per acquisire una nuova consapevolezza della presenza delle ‘ndrine che è ormai ovunque”. Una pervasività che emerga dal fatto che “le consorterie criminali calabresi sono abili nel creare seguito soprattutto fra quelle persone in cerca di riscatto sociale, le cui condizioni di vita li spingono a schierarsi, piuttosto che con lo Stato (le cui risposte, talvolta imbrigliate da lungaggini e meccanismi burocratici, tendono ad essere incomplete, intempestive e comunque non satisfattive), con la ‘ndrangheta che, invece, apparentemente, crea ricchezza, risolve i problemi e non abbandona i suoi adepti”. Un welfare criminale che, però, è il più classico dei bluff perché “si tratta di aspettative effimere e di breve durata, di cui sono ben consapevoli migliaia di vittime, molte delle quali, dopo aver intravisto possibilità di arricchimento attraverso l’interlocuzione con la ‘ndrangheta, hanno perso ben più di quello che avevano”.