La Peste nei secoli dei secoli. Il morbo descritto da Camus sarà presto un film. Un romanzo che insegna il baratro dei flagelli

Si ingrana su descrizioni del tutto analoghe a Foucault e a Manzoni La Peste di Albert Camus (Bompiani, pagg. 326, euro 13), testo classico di cui si aspetta una imminente trasposizione filmica italiana e che, oltre alle ben note similitudini in epoca di Covid, ha il pregio di delineare tonalità dell’animo umano delicatissime, fibre dei tessuti nervosi e psicologici al limite dell’incomunicabile, minuscole gestalt che acchiappano gli amori, i ricordi, le paure, le fughe, l’esilio, i ricongiungimenti, gli smarrimenti di tutti i personaggi tratteggiati in soggettiva dal medico-eroe Bernard Rieux.

Il filosofo francese mette in evidenza, più che la dimensione concentrazionaria dei dispositivi politici di internamento e distanziamento – per noi così tristemente attuali -, quella quasi dionisiaca, parossistica, irredenta che, proprio in quanto una intera città viene di fatto murata e coartata dalle forze armate, spinge al suo interno a godere di una convivialità talvolta ebbra e scacciapensieri, con una pratica di assembramento tollerato che sembra quasi risarcitoria – almeno in una prima fase dell’emergenza -, e che fa da controcanto agli infami luoghi della infezione e della decomposizione della carne, delle febbri che spaccano i petti e degli ascessi che fanno uscire fuori tutta la laida materia del vivente di cui è composto l’uomo, e l’uomo che soffre e si sfinisce di dolori, in particolare. Fino al giorno della liberazione dal morbo dove è tutto un fiorire, fra case e selciato, moli e scogliere, di fuochi pirotecnici, abbracci, musica, danze, desideri incontenibili.

Ma la peste è all’insegna di una “disincarnazione” totale, di “astrazione”, come rimarcano il chirurgo in prima linea e la sua corte di ausiliari sanitari che cercano di opporsi alla valanga di corpi scomposti, urla patetiche, membra accartocciate, viscere che ribollono, bubboni che si gonfiano, e che non risparmia fra spasmi e languori né bambini innocenti, né cittadini in odore di laica santità, né vecchi oziosi, né madri e maestri dal piglio autoritario. La routine, l’accettare “tutto in blocco”, il “sangue freddo” che si sostituisce al “senso critico”, l’”atonia” dei sentimenti, la rinuncia consapevole alla felicità e agli affetti, al tempo in sequenza e alle speranze di un nuovo inizio, portano Camus a dire che tutti, fra “terrore e formalità”, erano “destinati a una morte ignominiosa, ma registrata su appositi moduli”. Perché i flagelli sono così: anche laddove le fiamme virali contraggono arti e ventri, anche laddove la storia di ognuno si ripiega drammaticamente nell’irrealtà che avvolge il collettivo, fino ad assumere le sembianze di una veste stinta da vecchio baule, è la Scienza a trionfare, una scienza prefettizia e ippocratica, di sieri e scartoffie, che mima l’altezza del sapere di fronte al baratro dell’”inaccettabile” che del contegno non sa che farsene.