Ora che anche il Financial Times parla di “vergogna”, ora che The Guardian scrive la parola proibita – genocidio – all’improvviso il silenzio s’incrina. I comitati editoriali si svegliano. Le colonne si moltiplicano. Ma non è coscienza: è consenso. È il panico di perdere lettori, abbonamenti, credibilità. E allora via con le editoriali contrite, con le fotografie che finalmente mostrano ciò che tutti sapevano da mesi.
Ben venga. Ma nessuna indulgenza.
Per diciannove mesi una parte della stampa ha depotenziato, censurato, giustificato. Ha fatto da schermo. Ora si scopre umanitaria solo perché l’opinione pubblica cambia vento. Perché le università occupate fanno rumore, perché i lettori si stancano delle veline, perché persino i cronisti embedded non riescono più a oscurare i corpi bruciati e i bambini amputati.
Il merito non è dei giornali. È di chi ha tenuto la barra dritta quando non conveniva: reporter sul campo, ong, studiosi, attivisti, redazioni che hanno pagato in termini di isolamento, licenziamenti, intimidazioni. È questa la vera resistenza. Tutto il resto è rincorsa tardiva, goffamente rivendicata.
Ora tocca alla stampa un compito più difficile: raddrizzare la politica. Perché la politica, anche quella italiana, continua a balbettare, a distinguere, a voltarsi altrove. Servono editoriali che non si limitino al lutto ma pretendano sanzioni, rotture diplomatiche, conseguenze. Chi ha sbagliato – con il silenzio o con la complicità – non può farla franca solo perché oggi cambia verbo.
Il tempo delle omissioni è finito. Ora si risponde alla Storia. E la Storia ha buona memoria.