Lavoro femminile, si va a rilento: Meloni e Schlein non bastano

Una donna presidente del Consiglio e una a capo del secondo partito non sono sufficienti: sul lavoro femminile la strada è ancora lunga.

Lavoro femminile, si va a rilento: Meloni e Schlein non bastano

Tra gli obiettivi del Pnrr non poteva mancare il sostegno all’occupazione femminile e tra gli appalti – grandi o piccoli che siano – bisognerà tener conto delle quote del 30% per le assunzioni giudicate necessarie a ultimare i lavori aggiudicati. Assieme alle donne, altra categoria che in termini occupazionali e salariali non se la passa granché bene, gli under 36.

Meloni premier non basta: il lavoro femminile deve essere incentivato vincolando le aziende

Le quote sono quello strumento tanto amato quanto odiato che ci fa sentire un panda “una specie protetta” che altrimenti si estinguerebbe. E, in effetti, nel mondo della politica sarebbe certamente così se non avessimo le “quote rosa” alla cui funzione si oppone oggi lo storytelling della self-made woman di potere: la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

Se sei bravo ce la fai e non puoi non farcela, di conseguenza se non ce la fai semplicemente non lo meriti. In realtà la parità di condizioni di accesso a una data realtà devono essere il presupposto di qualsiasi sana competizione che ignorando il genere sessuale mette al centro della sana competizione unicamente il merito individuale.

Proprio per questo l’obiettivo del 3.7% di occupazione femminile in più nel triennio 2024-2026 è raggiungibile vincolando le aziende che percepiscono dentro pubblico a mettere in moto la macchina del lavoro femminile. Sono state stilate delle linee guida accompagnate con una forse ben più lunga lista di deroghe, molte delle quali tanto fumose quanto dannose.

Le quote non applicate: le deroghe troppo ampie penalizzano l’occupazione femminile

Come è stato fatto rilevare dal Cnel le maglie troppo larghe delle deroghe permettono una lecita disapplicazione delle quote e con l’utilizzo della categoria “altro” si può contravvenire a uno dei principi che dovrebbe illuminare, non di certo come “lettera morta”, l’azione politica: l’inclusione paritaria (di accesso, condizioni e retribuzioni) delle donne nel mondo del lavoro.

Vero che molte donne non sono formate nelle cosiddette discipline Stem, complice la cultura del patriarcato che ci spinge a ritenere di essere tagliate unicamente per lavori di cura, ma oltre a promuovere la convinzione nelle giovani generazioni di studentesse di poter scegliere il proprio indirizzo accademico sapendo di essere sempre all’altezza qualunque esso sia è necessario formare le donne anche a mansioni che abitualmente non sono per ragioni storiche abituate a ricoprire.

In tal senso c’è una deroga che fa riflettere: questa prevede che nelle realtà aziendali in cui non vi sia già il 25% di lavoratrici donne che si possa non ottemperare alle quote come a dire: “questo non è un mondo per donne e mai lo sarà, inutile provarci”. L’ebrezza di avere una donna a capo del governo e una a capo del maggior partito di opposizione, anche in questo recente scontro sulle elezioni comunali, ci stordisce al punto di raccontare a noi stessi di essere un passo avanti sulla strada dell’emancipazione femminile ma la dura realtà ci dice che c’è ancora tanto da fare.

Risolvere la questione del lavoro femminile porterebbe benefici anche nel contrasto alla violenza

Se pensiamo che fino al 1981 avevamo il delitto d’onore e il matrimonio riparatore immediatamente ci sentiamo nel migliore dei mondi possibili, ma è evidente che la disparità di genere possa assumere le forme più subdole così come possa la violenza sulle donne annidarsi laddove esiste il ricatto economico. Per un effetto domino risolvere il tema del lavoro femminile porterebbe benefici – certamente parziali ma assolutamente necessari – anche nel contrasto alla violenza che, spesso usata in ambiente domestico, troverebbe nel mezzo economico la possibilità di liberarsi dal ricatto della dipendenza dall’uomo.

Basta rileggere la Convenzione di Instanbul per mettere a fuoco la questione. E allora bisogna cogliere e sfruttare l’opportunità fornita dal Pnrr stringendo al massimo le maglie delle deroghe e gettando nel cestino il mantra del “bisogna snellire la burocrazia” perché se è pure vero che i tempi delle procedure debbano essere velocizzati è altrettanto vero che non può essere fatto a detrimento dei diritti e della lotta alle diseguaglianze.

L’Anac, che è l’ente preposto al monitoraggio dell’assegnazione degli appalti e del rispetto dunque anche della suddetta quota del 30% e, non più di qualche mese fa, lanciava l’alert rispetto alla questione femminile e alla disapplicazione della norma. Ma proprio questa norma sembra essere scritta per essere raggirata in nome del “fare presto!” sulla scia della riforma del codice degli appalti, ignorando bellamente quanto questo equivalga al fare male.