I numeri freschi dell’Osservatorio Inps, pubblicati da Repubblica e basati sulle dichiarazioni contributive 2024, mostrano con chiarezza la struttura reale dell’occupazione che il governo Meloni presenta come un successo storico. L’aumento dei posti di lavoro c’è, ma si concentra negli stessi settori che da anni alimentano l’area del lavoro povero: alberghi, ristorazione, commercio, costruzioni. È un’Italia che cresce dove paga meno.
Salari bassi e occupazione in crescita
Secondo l’Inps, i dipendenti privati non agricoli sono 17,7 milioni, con una retribuzione media di 24.486 euro lordi l’anno, che diventano 28 mila per gli uomini e 20 mila per le donne. In testa alla classifica retributiva ci sono banche e assicurazioni (oltre 56 mila euro), l’estrazione di minerali (51 mila) e il settore energia-gas (50 mila), comparti che registrano quasi un anno pieno di lavoro. Nel fondo della graduatoria stanno alberghi e ristorazione, con appena 11.233 euro lordi e 183 giornate retribuite, seguiti dal mondo dello spettacolo (15.628), dall’istruzione privata e dai supplenti pubblici (16.451). Sono dati che Repubblica definisce «una fotografia precisa della polarizzazione salariale italiana».
La dinamica occupazionale rafforza questa immagine. Nel 2024 tre settori da soli spiegano quasi il 60 per cento dell’aumento degli occupati: alloggio e ristorazione (+100.022), commercio (+66.993) e costruzioni (+38.196). Tutti e tre stanno sotto la media nazionale degli stipendi: 11.233 euro lordi negli alberghi e ristoranti, 23.577 nel commercio, 22.106 nelle costruzioni. L’occupazione cresce quindi principalmente nei settori dove le retribuzioni sono più basse e i contratti più brevi.
Il nodo strutturale del part-time e delle donne
Il rapporto Inps registra poi un elemento centrale per leggere la stagione occupazionale: un terzo dei dipendenti (33 per cento) ha avuto almeno un rapporto part-time nel corso dell’anno. Il dato cambia radicalmente per genere: il 49 per cento delle donne ha avuto un part-time, contro il 21 per cento degli uomini. Nel part-time orizzontale le donne sono il 67 per cento; nelle forme miste superano il 70. È il cuore della diseguaglianza italiana: più contratti, meno ore, salari più bassi.
Il dato sulle fasce retributive pesa ancora di più. Sotto i 25 mila euro lordi resta il 60,1 per cento dei lavoratori; quasi la metà dei dipendenti (46,1 per cento) non supera i 20 mila euro. Anche restringendo l’analisi ai lavoratori sempre full time, la quota sotto i 20 mila resta al 27,1 per cento. È una distribuzione che non ha subito svolte negli ultimi anni: più teste contate, salari quasi immobili.
Il mito dei “nuovi occupati”
Dentro questo perimetro si inserisce la narrazione governativa. La premier Meloni rivendica un mercato del lavoro che “non si vedeva da decenni”, ma la spinta occupazionale arriva soprattutto dalle stagioni turistiche più lunghe, dall’allargamento dei servizi e dall’edilizia drogata da bonus e cantieri pubblici. L’identikit del lavoratore che entra nelle statistiche non coincide con l’idea di stabilità o crescita sociale evocata dal governo. Anzi, a leggere i dati Inps, la figura che emerge è quella del cameriere stagionale con contratti brevi, della commessa part-time e dell’operaio con giornate discontinue.
La fotografia di Repubblica è chiara: in alto pochi comparti ad altissima specializzazione; in basso una platea ampia che non raggiunge i 12-22 mila euro lordi annui. In mezzo, un ceto lavoratore compresso dal part-time, dalle discontinuità e dall’assenza di dinamiche salariali robuste.
Le cifre confermano che il “record occupazionale” rivendicato da Meloni descrive soprattutto un aumento quantitativo, non qualitativo. L’Italia continua a produrre lavoro povero strutturale. E finché la crescita si alimenterà nei settori a più bassa retribuzione, il divario tra narrazione politica e condizioni reali rimarrà visibile nelle stesse statistiche ufficiali che il governo usa per festeggiare.