Le primarie trappolone. Orfini imita D’Alema vittima della sua tela. Il risultato di Roma è un pericolo. Dietro il voto c’è l’ombra di Verdini

di Stefano Iannaccone

Chissà cosa starà pensando il suo vecchio mentore, Massimo D’Alema. L’ex delfino prediletto, Matteo Orfini, romano di 41 anni, rischia finire impigliato nella sua stessa ragnatela. Proprio come il Lider Maximo che ha insegnato all’allievo gli anfratti della politica e la capacità di muoversi negli spazi angusti del potere. Lo ha fatto talmente bene che Orfini ha pugnalato il padre politico, non appena il vento ha cambiato verso. Prendendo la direzione di un altro Matteo, proveniente da Rignano sull’Arno smanioso di rottamare – almeno a parole – i politici. E così Orfini ha finito per dire all’ex maestro: “Impara a fare autocritica”. Un approccio pragmatico molto simile a quello scelto con il Jobs Act: nel 2002 era in piazza con Sergio Cofferati per salvare l’Articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Poco più di un decennio dopo ha definito una “sfida da raccogliere” il cambiamento di quell’articolo.

IL REGALO – Orfini ha portato in dote a Renzi la pattuglia dei Giovani Turchi, che hanno scelto il nome ufficiale dell’associazione Rifare l’Italia. Facendola diventare la costola sinistra del renzismo e dando al co-leader della corrente, Andrea Orlando, il ruolo di ministro della Giustizia. Ma gli orfiniani esprimono anche la responsabile Enti Locali del Pd, Valentina Paris, l’europarlamentare, Roberto Gualtieri, e il sottosegretario all’Ambiente, Silvia Velo. Insomma, l’ex figlioccio di D’Alema ha saputo costruire intorno a sé una rete di potere ampia, anche senza avere un vero e proprio fortino elettorale. Alle parlamentarie del 2012, quelle promosse per ottenere un seggio del Pd, si è classificato solo quinto nel collegio di Roma città. Ha portato a casa 5mila preferenze, meno della metà di quelle ottenute da Stefano Fassina che all’epoca era un esponente di punta della sinistra dem. Ma il buon Matteo, da abile tessitore, è riuscito a conquistare anche la poltroncina di presidente dell’assemblea nazionale del Partito democratico, rimasta vacante dopo le dimissioni di Gianni Cuperlo.

PRIMARIE PERICOLOSE – Ora arrivano le primarie a Roma, un trappolone sul cammino orfiniano. Sarebbe giusto dire l’ennesimo da quando la segreteria nazionale, ossia Renzi in persona, ha deciso di spedirlo come commissario di un partito romano frantumato dalla guerra tra bande di potere, travolte poi dall’inchiesta Mafia Capitale. E lui ha avuto l’ulteriore compito di domare l’imbizzarrito sindaco, Ignazio Marino, che qualche tempo prima delle dimissioni aveva paragonato a Balotelli: “Deve imparare a disciplinare il suo talento per convincere davvero”. Orfini, giusto qualche settimana dopo, ha avallato senza reticenze la defenestrazione di Balotelli-Marino. Ma non si è scomposto. Ha proseguito, con il sorriso ironico stampato sul volto, a confabulare in Transatlantico con gli amici renziani e i compagni della minoranza, con cui ha l’ordine di dialogare e cercare di ridurre sempre il dissenso. Insomma, tessere la tela. Ma soprattutto pensando alla strategia per non essere inghiottito dal renzismo, o peggio essere ricordato solo per le partite a calcio balilla con Renzi. Il candidato per il Campidoglio, comunque vada, è un pericolo. Sul tragitto sono stati disseminati veleni. Come la voce che vorrebbe un Denis Verdini impegnato a schierare truppe cammellate per sostenere Roberto Giachetti. Così Orfini ha tolto il sorriso di ordinanza e da Twitter ha lanciato il suo pensiero: “Se davvero Verdini ha voglia di primarie, convinca la destra a organizzarle. Le nostre sono off limits per chi non è di centrosinistra”. Ma il guaio è mezzo fatto: se vincerà Giachetti, come sembra, tutti parleranno dell’appoggio di Verdini. E lui dovrà dare una risposta convincente. Tirando fuori le doti da tessitore.

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