La chiamano “la donna più sola di Bruxelles”. Teresa Ribera, giurista spagnola, già ministra dell’Ambiente nei governi Sánchez e ora Prima Vicepresidente esecutiva della Commissione europea, è formalmente la numero due dell’esecutivo Ue von der Leyen. Ma quel ruolo, carico di potere teorico, è oggi un avamposto fragile nella battaglia più aspra dell’Unione: la difesa del Green Deal in un continente che vira a destra, insegue la deregolamentazione e torna a vedere nell’industria fossile e nei pesticidi un rifugio contro la crisi.
La sua nomina nel dicembre 2024 è arrivata nel pieno di una controffensiva politica: l’ondata nera uscita dalle urne europee, l’offensiva del Ppe guidata da Manfred Weber e la mobilitazione delle lobby industriali hanno reso Ribera il bersaglio perfetto. L’agenda verde, cuore originario della Commissione von der Leyen, è diventata un terreno di scontro, e chi ne incarna la responsabilità si ritrova sotto assedio. “È praticamente sola”, ha scritto Politico, riassumendo il paradosso: molto potere, pochissimo margine.
Il dossier Valencia: accusa, processo e damnatio memoriae
Il primo colpo è arrivato da casa sua. L’alluvione del 29 ottobre 2024 a Valencia – 229 morti – è stata trasformata in arma politica contro Ribera. Durante l’emergenza, lei si trovava a Bruxelles, e i suoi contatti con il presidente della Comunità Valenciana Carlos Mazón si sono rivelati inconsistenti: un solo SMS alle 20:20, mentre il fiume Júcar tracimava e i sistemi d’allarme venivano disattivati.
Il giorno successivo, la ministra è rientrata a Madrid, ma la sua presenza è stata simbolica. Le opposizioni, in Spagna e al Parlamento europeo, hanno affondato: incompetenza, omissione, colpevolezza morale. La destra l’ha inchiodata in aula, Vox ha chiesto il suo rinvio a giudizio. Ribera ha evitato di comparire in Parlamento. E la polemica è diventata stigma.
Un’agenda sotto attacco
Il Green Deal non è solo un piano climatico. È una riforma strutturale di tutto il modello produttivo europeo. E questo, in tempi di inflazione, crisi energetica e tensioni geopolitiche, è diventato un crimine politico. Le proteste degli agricoltori, le pressioni dell’automotive, i malumori delle industrie pesanti si sono trasformati in una campagna contro le “regole verdi” accusate di essere astratte, ideologiche, punitive.
Il Ppe ha guidato l’assalto: abolire il divieto di vendita di motori a combustione dal 2035, affossare il regolamento sui pesticidi (Sur), annacquare la Legge sul Ripristino della Natura. La narrativa è semplice: la transizione ecologica è un lusso insostenibile. E Ribera è la tecnocrate che impone quel lusso.
Riberta, un potere solitario
Ribera non è priva di strumenti. Oltre a guidare il Green Deal, detiene il portafoglio Concorrenza: ha potere sugli aiuti di Stato, sul mercato interno, sugli investimenti strategici. Ha bloccato un tentativo interno di abolire le norme anti-greenwashing, ha costretto la Commissione a reintrodurre menzioni climatiche nella dottrina economica 2025, ha rinegoziato il testo finale del target climatico al 2040, imponendo – seppur a caro prezzo – la soglia del -90% di emissioni. Ma ogni mossa è un compromesso. La direttiva Green Claims è saltata, il Sur è stato ritirato, la Nrl è sopravvissuta dimezzata. Ribera lotta per salvare frammenti di un’agenda sempre più amputata.
Nel collegio dei Commissari è in minoranza netta. Gli alleati socialisti sono quattro su ventisette. I suoi rapporti con von der Leyen sono ambigui: la Presidente la usa come scudo per difendersi dalle accuse di cedimento, salvo poi sacrificarla – come nel caso del Sur – per neutralizzare i malumori del Ppe.
La battaglia personale di Ribera
Ribera non fa mistero della sua visione: “Non potete dire che il cambiamento climatico è la sfida esistenziale della nostra generazione e poi non fare nulla”, ha dichiarato dopo l’ondata di caldo di giugno 2025, mentre a Huelva si toccavano i 46°C. Ha scritto su El País un’invettiva in difesa del multilateralismo ambientale il giorno dopo la morte di papa Francesco, che considerava un punto di riferimento etico. E ha sfilato con un taccuino arcobaleno dopo il veto non scritto della Commissione sulla partecipazione al Budapest Pride.
La sua solitudine è politica, ma anche emotiva. I suoi alleati – Sánchez in testa – sono indeboliti. Le Ong la sostengono, ma non bastano. Dentro la Commissione è sorvegliata speciale. Ribera affronta la sua sfida come una tifosa dell’Atlético Madrid: accerchiata, sfavorita, ma fedele a un’idea. Quella che un’Europa competitiva può essere anche decarbonizzata. Che la giustizia ambientale è anche giustizia sociale. E che arrendersi al populismo climatico equivale a scrivere la resa del continente.
Teresa Ribera non è solo una figura tecnica. È il termometro di un’Europa che, mentre si accorge della gravità della crisi climatica, arretra per convenienza politica. Se la sua linea cade, cade anche la credibilità dell’Unione sul fronte ambientale. La sua ostinazione – a tratti eroica, a tratti disperata – è ciò che resta di un progetto che rischia di diventare memoria.