L’Europa ci dice anche per chi votare. Moscovici avvisa l’Italia: se non votiamo come piace a Bruxelles saremo un problema. Ecco perché si è passato il segno

La democrazia in Italia? Un problema per l’Europa. A poche settimane dal voto l’Unione ha già capito l’aria che tira. Comunque vadano le elezioni, non solo le distanze con Bruxelles si sono allungate, ma la rotta di collisione con il risorto asse franco-tedesco è tracciata. E per quanto Roma non sia stata mai troppo abile nel tutelare i propri interessi nazionali, presto vedremo di sicuro nuovi conti da pagare. A dare il segnale è stato ieri il commissario Ue agli Affari economici, il moderato Pierre Moscovici, che ha definito la situazione in Italia uno dei rischi politici all’orizzonte in Europa. Per gli euro burocrati è chiaro che lo scenario non è rassicurante. I Cinque Stelle pensano a una sorta di referendum dagli esiti imprevedibili sulla moneta comune. Nella coalizione di Centrodestra, la Lega è considerata un partito euroscettico alla stregua dell’Ukip che ha trascinato la Brexit. A Sinistra c’è Renzi, spedito a Palazzo Chigi dalla Merkel, passando dall’allora Capo dello Stato Giorgio Napolitano, tuttora garante dei mercati e dell’establishment. Il Pd è in coalizione con un partito che si chiama niente di meno +Europa (con la Bonino), ma dalle parti della Commissione anche i sassi sanno che il segretario dem non è più considerato affidabile come una volta. Più che di sponda, tra Italia ed Europa i rapporti sono dunque destinati ad essere di forza. E quando un Paese ha in tasca un debito pubblico spaventoso e di fronte un blocco come quello formato da Merkel e Macron, qualunque partita è già persa in partenza.

L’ingerenza di Moscovici poteva essere perciò evitata benissimo. Anche perché, oltre a giocare con l’handicap, rischiamo di ritrovarci lo spettro che più di tutti allarma l’Europa: l’ingovernabilità. Nel caso in cui dopo il 4 marzo non si riuscisse a formare una maggioranza stabile in Parlamento, le istituzioni Ue e i detentori del nostro debito pubblico si troverebbero infatti senza interlocutori. Un caos su cui soffierebbe ancora più forte il populismo, aprendo anche per l’Italia quello scenario già visto in Grecia prima della grande crisi del 2015. Una prospettiva molto pericolosa per la stessa tenuta dell’Unione europea, visto che le nostre dimensioni, ruolo e portata politica sono ben diverse da quelle dello Stato ellenico.

Di fronte a questo quadro, sia per il rispetto della sovranità popolare, sia per l’obbligo di non entrare nelle vicende politiche di un Paese partner, Moscovici e la Commissione dovrebbero evitare accuratamente di prendere posizione. Soprattutto fornendo indicazioni e veti. Se nel primo caso infatti il commissario francese si è limitato a domandarsi quali possano essere la maggioranza, il programma e l’impegno europeo, nel secondo caso è arrivata una sonora bocciatura verso una delle proposte forti dei Cinque Stelle, con l’ipotesi presentata da Luigi Di Maio di superare con la spesa produttiva il vincolo del 3% sul Pil fissato dagli accordi di stabilità. Una ricetta inutile perché a sentire l’esponente della Commissione – non certo un esponente del partito dei falchi del rigore – l’Europa è oggi uscita dall’era delle grandi crisi. “L’Europa ha ripreso colore”, afferma con certezza Moscovici, appoggiandosi su statistiche di cui è molto difficile sentire gli effetti, a partire da una crescita salita sopra il 2%, “più degli Stati Uniti”. “L’Europa – ha detto – può contare su una crescita solida e duratura”. Il guaio è che qui l’onda lunga di questo benessere non si vede se non a sprazzi. Colpa della cura da cavallo imposta proprio dall’Europa attraverso vincoli durissimi agli investimenti e l’obbligo di un’imposizione fiscale assassina. Un lavoro sporco che dopo il governo di Mario Monti c’è già chi immagina di continuare, magari individuando come nuovo esecutore Mario Draghi.

Per questo intanto si prepara il terreno, lodando le riforme ma avvertendo che altre altre ne restano da fare. Riforme che – sia chiaro – vadano nella direzione voluta dall’Europa, dove il chiodo fisso non è la crescita ma la capacità di restituire a caro prezzo il nostro debito, comprensivo di interessi e possibilmente dei nostri gioielli di famiglia. Per questo la proposta di Di Maio sul deficit è stata bocciata come “un controsenso assoluto”. Il tetto del 3% – ha spiegato candidamente Moscovici – serve a evitare che il debito non slitti ulteriormente. Un gioco talmente scoperto da indurre il commissario Ue ad ammettere – e d’altra parte non è un segreto – che sugli orientamenti europei i poteri forti di Bruxelles si sentono tutelati dalla “convergenza di vedute” con Paolo Gentiloni e Pier Carlo Padoan. Siamo commissariati, insomma, e nessuno si illuda che questa Europa lascerà facilmente la presa.