Ormai è un genere letterario. L’erosione della libertà di stampa è una costante nazionale e internazionale che va di pari passo con le autarchie. Si moltiplicano i trumpismi (o gli orbanismi o i putinismi) e si riducono gli spazi per l’informazione libera. Il risultato è che da almeno un decennio la libertà di stampa arretra. Il World Trends in Freedom of Expression and Media Development 2022–2025 dell’Unesco certifica che l’attuale regressione rappresenta infatti uno dei momenti più gravi mai registrati al di fuori di contesti bellici globali.
L’indice elaborato sui dati V-Dem segnala un calo del 10 per cento dal 2012, con un’accelerazione evidente dopo il 2020. Per gli autori del rapporto un deterioramento di questa portata trova precedenti solo nella Prima guerra mondiale, nell’ascesa dei regimi autoritari tra le due guerre e nei passaggi più duri della Guerra fredda. Ma il declino della libertà di stampa è solo la parte di una crisi più ampia.
Oggi il 72 per cento della popolazione mondiale vive sotto regimi autoritari o ibridi, il livello più alto dal 1978. Così l’informazione indipendente diventa bersaglio diretto: crescono censura, pressioni politiche e controllo economico, mentre l’autocensura dei giornalisti aumenta del 63 per cento tra il 2012 e il 2024. Anche i governi hanno intensificato le misure di controllo sui media del 48 per cento in dodici anni, erodendo pluralismo e autonomia editoriale.
L’Occidente che arretra
Il rapporto chiarisce che l’arretramento non riguarda soltanto le democrazie fragili. Anche l’Europa occidentale e il Nord America registrano una perdita strutturale di libertà di espressione, con un calo complessivo di circa il 6 per cento tra il 2012 e il 2024, pari a una riduzione media annua dello 0,46 per cento. A peggiorare sono soprattutto gli indicatori legati alla libertà accademica, alla censura indiretta e alle minacce contro i giornalisti, segnali di un clima sempre più ostile al dissenso informato.
C’è ovviamente anche l’Italia. Il report non dedica capitoli monografici al Paese ma lo include tra quelli che, nel triennio 2022-2024, hanno inoltrato richieste di rimozione di contenuti a Facebook. L’Italia sta accanto a Stati Uniti, Germania, Francia e Spagna. Il dato non consente di valutare nel merito la legittimità delle singole richieste ma segnala un passaggio cruciale: una parte crescente della gestione del discorso pubblico avviene tramite interlocuzioni dirette con le piattaforme digitali, in un perimetro di trasparenza ridotta e responsabilità opaca.
Il rapporto dedica ampio spazio a questo slittamento di potere, definito jawboning: pressioni informali esercitate dai governi sulle piattaforme per ottenere rimozioni, de-indicizzazioni o limitazioni della visibilità. È una dinamica che non assume la forma della censura classica ma che incide in modo sostanziale sulla circolazione delle informazioni e sulla possibilità di svolgere un controllo pubblico sul potere.
Giornalisti sotto attacco e informazione impoverita
La crisi assume contorni ancora più netti guardando alla sicurezza dei giornalisti. Tra il 2022 e il settembre 2025 310 operatori dell’informazione sono stati uccisi, oltre la metà in contesti di conflitto. L’impunità resta la regola: più dell’85 per cento dei casi non arriva a una condanna. Le donne risultano colpite in modo sproporzionato da violenze, minacce e campagne di molestie online, descritte come strumenti sistematici di esclusione dallo spazio pubblico.
Accanto alla violenza fisica cresce un fenomeno meno visibile ma altrettanto corrosivo: l’esilio forzato. Redazioni smantellate, giornalisti costretti a lavorare dall’estero, interi territori trasformati in zone di silenzio, dove l’informazione indipendente scompare e i cittadini perdono accesso a notizie affidabili.
Il rapporto riconosce però l’esistenza di contro-tendenze: la crescita dei media comunitari, il giornalismo investigativo collaborativo, l’aumento degli abbonamenti digitali. Tra il 2020 e il 2025 circa 1,5 miliardi di persone hanno avuto accesso ai social network e ai servizi di messaggistica. Ma questi segnali restano fragili, insufficienti a compensare la crisi strutturale della sostenibilità economica dei media e l’impatto delle piattaforme e dell’intelligenza artificiale sul valore del lavoro giornalistico.
La conclusione è netta: senza un rafforzamento immediato delle garanzie per la libertà di stampa, della trasparenza delle piattaforme e della sostenibilità dell’informazione, l’arretramento continuerà. E quando l’informazione smette di essere un diritto universale e diventa un privilegio, la democrazia perde il suo presupposto essenziale: la possibilità di essere raccontata, verificata, messa in discussione.