L’Italia non va in porto. Affondato un miliardo e mezzo

di Andrea Koveos

porti italiani sono fermi al palo. I lavori di ampliamento e ammodernamento degli scali marittimi sono fermi da dieci anni. Un ritardo che annulla i finanziamenti pubblici di un miliardo e mezzo di euro.
Un mare di soldi buttati. Un danno per il nostro  sistema portuale e logistico che stenta a intercettare flussi di traffico diretti e originati all’estero e vede le imprese nazionali rivolgersi a scali stranieri per i propri fabbisogni di trasporto. Ancora una volta il nostro Paese non sfrutta le sue potenzialità. Come quelle legate alla posizione geografica favorevole.
Lo rileva la Corte dei Conti nell’indagine di controllo sulle “Spese per la realizzazione di opere infrastrutturali di ampliamento, ammodernamento e riqualificazione dei porti”. “Relativamente alle opere gestite dalle varie Autorità portuali – spiega la Corte – l’istruttoria ha evidenziato marcati profili di criticità consistenti, in particolare, nei ritardi accumulati nell’attuazione degli interventi, una parte significativa dei quali non risulta conclusa ad oltre un decennio dall’adozione degli atti di programmazione e dall’assunzione dei limiti di impegno per un totale di finanziamenti pubblici di quasi 1500 miliardi di euro (in media, circa il 38% delle opere finanziate con leggi 488/1999 e 388/2000 e quasi il 50% di quelle finanziate con legge 166/2002 devono ancora essere completate)”.

Le maglie nere
Brindisi, Catania, Messina, Palermo, Taranto e Trieste presentano indici di avanzamento degli interventi infrastrutturali programmati davvero scarsi e inferiori al 10%. I giudici contabili hanno evidenziato i diversi fattori che hanno inciso pesantemente sulla tempistica di realizzazione delle opere: “atteggiamenti di sostanziale inerzia o inadeguata capacità di gestione di alcuni enti autonomi, il proliferare dei vincoli ambientali, l’ampio contenzioso relativo alle gare d’appalto, procedimenti giudiziari con sequestro di intere aree interessate ai lavori, criticità progettuali e ritardi procedurali”.
Tutti fattori che determinano la competitività di uno scalo portuale e la sua capacità di intercettare volumi crescenti di traffico. Elementi  connessi non soltanto alla disponibilità di infrastrutture adeguate e all’esistenza di efficienti servizi portuali, ma anche ad aspetti di natura gestionale e di governance.

La burocazia
Sul proliferare dei vincoli ambientali sembra esserne consapevole anche il ministro Lupi che ha ribadito la necessità di rendere competitivi i porti italiani. “Oggi è impensabile che per dragare un porto ci si impiegano vent’anni. Per questo abbiamo previsto una norma, di intesa con il Ministro dell’Ambiente Andrea Orlando, che permetta una accelerazione delle operazioni di dragaggio”. Eppure l’economia del mare genera un fatturato complessivo (dati Srm – Intesa Sanpaolo riferiti al 2010) di 39,5 miliardi di euro – il 2,6% del Pil nazionale – occupa 500mila persone ed è il principale mezzo per spedire il made in Italy in tutto il mondo. Il valore dell’interscambio marittimo dell’Italia, invece, nel 2011 ha superato i 242 miliardi di euro, il 15,3% del Pil. Nella top ten dei porti che si affacciano sul Mare Nostrum, Valencia, Algeciras, Port Said, Barcellona e Atene sono cresciuti nel 2011, mentre Gioia Tauro ha perso terreno (-19,2%) come Venezia (-13%) Taranto (-13%) Genova (-0,6%) è rimasta invariata.