Lo sciopero alle Poste è stato un pacco. Cade la roccaforte sindacale: metà degli iscritti a tutte le sigle si è dissociato

Doveva mettere in ginocchio le Poste e invece lo sciopero generale proclamato per venerdì si è rivelato un mezzo fiasco, con un’adesione vicina al 40%.

Doveva mettere in ginocchio le Poste, ma a conti fatti lo sciopero generale proclamato per venerdì da quasi tutte le sigle sindacali si è rivelato un mezzo fiasco, con un’adesione vicina al 40%, nonostante la scelta strategica del venerdì, ideale per allungare il weekend. Una protesta che si è trasformata in un boomerang per i confederali e le altre siglette al seguito, visto che in Poste l’80% dei dipendenti è iscritto a una qualche organizzazione dei lavoratori, prevalentemente la Cisl. Un fiasco che dunque dovrà far pensare i sindacati e che dimostra come le motivazioni della protesta siano state percepite in modo confuso o addirittura pretestuoso, visto che al primo punto c’era l’opposizione a un’Offerta pubblica di vendita di azioni che è stata di fatto rinviata dal Governo a data da destinarsi. Poco comprese anche le altre motivazioni che ispiravano lo sciopero, cioè la riforma del recapito, diventata indifferibile visto il calo della corrispondenza a livello mondiale, e il paventato taglio di 20mila posti. Taglio smentito da più parti e in più riprese dai vertici aziendali che hanno garantito il mantenimento dell’organico, togliendo tutti i dubbi da possibili rischi di licenziamenti. L’attuale modello di crescita che sta consentendo di produrre utili, distribuire dividendi agli azionisti e proporre servizi competitivi nonostante ci si trovi nel bel mezzo di una crisi internazionale senza precedenti, offre infatti le migliori condizioni per offrire la più solida delle garanzie occupazionali a tutti i 140mila dipendenti del gruppo nel Paese.

Lavoratori ai quali in gran parte non sfugge come non ci sia alternativa a una diversificazione del modello industriale in un mondo nel quale quasi nessuno spedisce più lettere e quasi tutti invece inviano le e-mail. Dinamiche che non possono essere ignorate se non a rischio di provocare danni ingentissimi per l’azienda e i suoi dipendenti. Ciò nonostante i sindacati, anche per giustificarne il loro ruolo (e potere) continuano a demonizzare una privatizzazione che in realtà non è per niente nemica degli interessi dei lavoratori.

PIÙ CONSAPEVOLEZZA – Con questo atteggiamento piuttosto miope le organizzazioni sindacli hanno perso sempre più iscritti e presenza un po’ in tutti i luoghi di lavoro. Non si percepiva però quanto la situazione fosse grave alle Poste, da sempre una delle maggiori roccaforti della triplice e delle altre sigle minori. Scenario adesso più chiaro dopo che gran parte degli stessi iscritti ha disertato la protesta. Molti dei 140mila dipendenti in tutta Italia hanno infatti chiaro che la riduzione della partecipazione dello Stato nel capitale di Poste non comporta infatti una diminuzione delle tutele occupazionali. Al contrario, con la quotazione in Borsa, Poste ha allargato il numero degli azionisti interessati ad aumentare l’efficienza e a controllare il buon operato del management, a tutto vantaggio della redditività futura, degli investimenti per la crescita e della buona amministrazione delle risorse aziendali.