L’ultimo inafferrabile Padrino

Di Lirio Abbate per l’Espresso

Il suo volto di oggi non lo conosce nessuno. Ma abbatte i nemici e trasforma gli amici in capitani d’industria. Ma il suo vero miracolo è la capacità di creare lavoro e distribuire posti in una regione depressa. Di più: riesce a far eleggere i politici che gli sono più fedeli. Eppure da 21 anni è il latitante più ricercato d’Europa, condannato per stragi e omicidi, accusato di avere ucciso bambini e strangolato donne.

Matteo Messina Denaro non solo resta imprendibile, ma ha saputo inventare un metodo moderno di essere mafioso, e usa contemporaneamente i vecchi pizzini come Skype e Internet. “L’Espresso” racconta in esclusiva, sul numero in edicola domani la caccia al boss dei boss, i verbali inediti dove Messina Denaro racconta se stesso e la sua famiglia. E gli aneddoti del capo della mafia, fantasma, che ricompare per dare ordini su chi e come uccidere.

Ultimo, inquietante dettaglio, riguarda il legame con la sorella, Patrizia Messina Denaro, arrestata lo scorso dicembre: i “pizzini” in entrata o in uscita passavano dalla casa di lei. Ma per le comunicazioni urgenti, visto che i bigliettini richiedono mesi, la donna si sarebbe servita di Skype per parlare direttamente con il fratello.

Gli inquirenti hanno più indizi sull’uso di Internet. Sarebbe accaduto per l’ordine impartito da Matteo di «non toccare» in carcere e di «lasciare stare» Giuseppe Grigoli, il magnate trapanese della grande distribuzione alimentare, un prestanome del capomafia al quale hanno confiscato beni per centinaia di milioni.

In carcere, dove Grigoli è detenuto, si era sparsa la voce che l’imprenditore avesse iniziato a parlare con i magistrati. Il marito di Patrizia Messina Denaro, detenuto anche lui, aveva incaricato la moglie durante un colloquio di chiedere al fratello se Grigoli fosse stato autorizzato dal latitante o se andava ucciso per quello che stava facendo. La donna arriva a casa e si mette subito in contatto con Matteo, il quale le dice, tramite Skype, che Grigoli non andava toccato, perché da morto «avrebbe fatto più danno».

Nell’inchiesta di Lirio Abbate, “L’Espresso” rivela anche i dettagli di un verbale inedito, risalente al 1988, in cui Messina Denaro parla di sé e della famiglia: «Sono il quarto di sei figli di mio padre Francesco Messina Denaro (capomafia di Castelvetrano, ndr) e sono l’unico che ha continuato l’attività di mio padre dedita alla coltivazione dei campi», dice.

Così nel giugno 1988 si descriveva il futuro boss dei boss allora. Venne raccolto dagli agenti della Squadra mobile di Trapani guidata all’epoca da Rino Germanà, uno dei primi ad aver compreso il peso criminale di Messina Denaro. Con il consenso di Riina, dopo aver ucciso Borsellino con lo stesso commando hanno, infatti, tentato di ammazzare Germanà. «Mio padre ha iniziato la propria attività agricola come campiere e coltivatore presso i terreni della famiglia D’Alì Staiti (cugini del senatore Antonio D’Alì del Ncd, ndr) che si trovano in contrada Zangara a Castelvetrano. Tre anni fa ho subentrato in questo lavoro a mio padre con gli stessi compiti che lui ha svolto per trent’anni su quelle terre».