Matteo Santo Subito

di Aldo Cazzullo per il Corriere dello Sera

«Matteo, dicono che non puoi andare in giro con la Giulietta a noleggio». «E perché no?». «Perché ormai sei il presidente del Consiglio incaricato, e ti devono scortare». «No, guardate, a me la scorta non mi garba, non la voglio, grazie. La mia scorta è la gente». «Ma non si può…».
Il surreale dialogo tra Renzi e lo staff, in contatto con la polizia, è il primo inciampo sulla via dell’uomo che vorrebbe cambiare l’Italia in tre mesi. Alla fine sarà un pareggio: né la Giulietta bianca con cui è salito al Quirinale, né la scorta; treno. «Non voglio violare la legge o mettere in difficoltà uomini dello Stato che fanno il loro lavoro – è il ragionamento di Renzi -. Ma non voglio neppure dare al Paese l’impressione di un uomo che il giorno stesso in cui va al governo cambia status, immagine, stile. Non posso e non voglio passare dalla bicicletta all’auto blu. Io son di Rignano! Sono sempre stato in mezzo alla gente, e continuerò a farlo».

Così, qualche minuto dopo le 14, il premier incaricato arriva alla stazione Termini, assiepata di telecamere. Lui evita i microfoni e si ferma a parlare con i passeggeri, con la sua solita tecnica: salutare per primo, sorridere, gridare «grande!», fare una foto al volo. A bordo del Frecciarossa delle 14 e 20 abbraccia un tifoso della Fiorentina – «ora manca solo lo scudetto alla Viola!» – e si siede in un salottino con Lorenzo Guerini, il portavoce della segreteria, e Graziano Delrio, cui Renzi – se fosse possibile convincere Napolitano e Draghi che l’ex sindaco di Reggio Emilia non allarmerebbe Europa e mercati – affiderebbe volentieri il ministero dell’Economia; tanto, è il sottinteso, la politica economica la fa il presidente del Consiglio. Si mette mano al foglio con tante caselle quanti sono i ministeri. L’aspirante Ernesto Carbone resta fuori dal salottino, in piedi.

Alle 15 e 51 il treno arriva a Santa Maria Novella. Renzi scende – ancora vestito da Quirinale: cappottino grigio, camicia bianca, cravatta scura -, saluta un agente in borghese con l’orecchino che conosce, si ferma a baciare sulla guancia una suora di colore, grida un altro «grande!» a un amico, saluta il cronista: «Ha visto? La mia scorta sono loro. Le persone normali». Subito premette che non farà dichiarazioni ufficiali, «fino a quando non chiuderemo tutto: venerdì o sabato».

La partita che si chiude oggi è quella di Firenze. «Be’, certo, un po’ mi fa impressione. Per fortuna lascio la città in buone mani. Torna Dario Nardella. Sto giusto andando a Palazzo Vecchio a nominarlo vicesindaco». L’indicazione è evidente. «Ma il mio successore, sia chiaro, non lo decido io, lo decidono i fiorentini». Dalla Sardegna arrivano buone notizie: il candidato del Pd Pìgliaru è in testa. Ma Renzi è ancora concentrato sulle tensioni della mattinata: un’ora e mezza di colloquio con il presidente Napolitano; il passaggio al Senato da Grasso e alla Camera dalla Boldrini; l’incarico di formare il governo, mai toccato a un uomo di 39 anni compiuti da un mese. Spiega che la parola-chiave della sua breve dichiarazione alla stampa è l’ultima: «rassegnazione».

«L’Italia ha bisogno di una svolta radicale per uscire dalla sfiducia, dal pessimismo – è l’idea di Renzi -. La prima cosa da fare è il lavoro. In un mese si possono approvare i provvedimenti per consentire alle imprese di assumere, e ai giovani di scuotersi dalla rassegnazione. Poi ad aprile ci occuperemo della burocrazia: perché oggi le aziende devono affrontare la concorrenza internazionale gravate di un peso insostenibile. A maggio tocca al fisco: dobbiamo mettere più soldi nelle buste paga dei ceti deboli». Il concetto fondamentale è: «Servono subito due o tre provvedimenti forti per dare una scossa al Paese»; se poi il governo dovesse cadere, cadrà sul cambiamento, non sulla conservazione.

Fuori dalla stazione c’è una Citroën azzurrina che lo aspetta per portarlo a Palazzo Vecchio. Renzi dribbla la contestazione degli impiegati cui sarà tagliata l’indennità, e passa a salutare i collaboratori, che hanno portato i bambini: Ettore, un mese, figlio della sua segretaria Laura; ed Ernesto, 4 mesi, il neonato di cui parlò nel dibattito a Sky con Cuperlo e Civati, a proposito di diritti civili: «Se succedesse qualcosa alla sua mamma biologica, Teresa, vorrei che di lui si potesse occupare l’altra mamma, Letizia». C’è anche Tony, il parrucchiere. Nel Salone de’ Dugento è riunito il consiglio comunale, che sta discutendo la delibera sul nuovo supermercato Esselunga. Lui prende la parola per rivendicare l’operato di questi anni, insistendo su bellezza e cultura.

«A Roma il teatro Valle è ancora occupato; noi qui avevamo il teatro della Pergola nella stessa condizione, l’abbiamo riaperto, ora è tornato a fare produzioni». E comunque «noi abbiamo fatto degli sgomberi, ma sempre senza un manganello». Racconta la telefonata a Stefano Guarnieri, padre di Lorenzo, un ragazzo morto in motorino travolto da un’auto guidata da un uomo ubriaco e drogato: «Cominciò allora la battaglia per introdurre il reato di omicidio stradale. La politica è anche dare del tu al dolore. Ma è anche assecondare i sogni della gente». I consiglieri comunali sfilano a dargli il cinque. Poi lui si chiude per l’ultima volta nello studio di sindaco, con Nardella, Luca Lotti, Maria Elena Boschi, Francesco Bonifazi.

Qui Renzi tira fuori il foglio già compitato in treno con Delrio, con i nomi dei ministri. Per il momento (ma tutto è in evoluzione), al Lavoro c’è Mauro Moretti di Trenitalia, per cui il neopremier ha simpatia perché «è una delle poche persone che mi ha fregato», promettendo per mesi di realizzare a Firenze una stazione sotterranea poco invasiva, mentre andava preparando la nuova gigantesca stazione (poi hanno fatto pace, anche perché Trenitalia ha comprato l’Ataf, l’azienda dei trasporti locali). Alla Giustizia Livia Pomodoro, alla Cultura Franceschini, alla Difesa Roberta Pinotti, alle Politiche comunitarie Federica Mogherini, agli Affari regionali Dellai (anche se Casini spinge per D’Alia), alla Pubblica Istruzione Stefania Giannini o Cuperlo. Alle Attività produttive non c’è più Montezemolo, non disponibile. Fissi Alfano all’Interno (ha rifiutato la Difesa) e Bonino agli Esteri. Quanto al ministero dell’Economia, assicura Renzi di non averlo mai offerto a Barca. In qualche casella ci sarà di sicuro una sorpresa.

Il premier incaricato pensa a Saviano, anche se appare una suggestione più che una probabilità. L’intenzione è annunciare la lista e giurare nelle mani di Napolitano giovedì.
Renzi sa che deve guardarsi le spalle. Nel suo partito, e in generale nei rapporti con l’establishment. Intende ricucire con Enrico Letta, se e quando sarà possibile, e coltivare il rapporto di stima con Mario Monti. Ma non vuole ripetere quelli che considera errori del passato: farsi imprigionare dall’agenda e rinunciare a costruire un rapporto con l’opinione pubblica; presentarsi in Europa con il complesso dell’italiano all’estero», attento a non contrariare euroburocrati o partner stranieri, anziché far pesare gli interessi nazionali, a cominciare da una nuova politica di sviluppo e di investimenti.

Anche di questo ha parlato ieri al Quirinale, collegandosi con l’intervento del capo dello Stato all’Europarlamento: si tratta, concordano Napolitano e Renzi, di andare oltre le gabbie dell’austerity; ad esempio evitando di computare, nel calcolo del rapporto deficit-Pil, le spese per alcune infrastrutture pubbliche. Il presidente gli ha raccomandato però di evitare fughe in avanti, tanto meno solitarie, non concordate con l’Europa. L’intenzione di Renzi è accelerare subito le riforme del lavoro, della burocrazia, del fisco, senza dimenticare il taglio dei costi della politica: una volta dimostrato che «l’Italia fa sul serio», potrà chiedere a Bruxelles e Berlino di spendere di più per la crescita.

Anche perché da segretario pd ha ben presente che «le elezioni europee sono dietro l’angolo, e saranno un test importante». Renzi vuole arrivarci «senza perdere il contatto con la gente»: si spiega così, non solo con questioni di stile o di popolarità, la scelta di rifiutare o ridurre al minimo la scorta. «L’errore più grande che potrei fare è quello di cambiare la mia natura. So che sto correndo un rischio. Ma il rischio più grande sarebbe non coltivare il gusto della sfida, rinunciare a essere me stesso».