Giorgia Meloni parla sempre meno con i giornalisti. Secondo l’analisi di Pagella Politica del 26 settembre 2025, da gennaio a settembre ha risposto a 94 domande, contro le 138 dello stesso periodo del 2024: quasi un terzo in meno. Nel 2025 si è tenuta una sola conferenza stampa vera, il 9 gennaio, con 40 domande.
Per il resto, dichiarazioni lampo e punti stampa con margini stretti per i cronisti. Emblematico: quattordici risposte concentrate in appena due giorni, il 23 e 24 settembre, a margine dell’Assemblea generale dell’Onu. Lo stesso monitoraggio segnala che le dichiarazioni pubbliche sono state 11 ma hanno prodotto solo 4 risposte, mentre i punti stampa sono stati 10 e hanno generato 50 risposte; nel 2024 i numeri erano 8 e 74, segno di un restringimento progressivo degli spazi di interlocuzione.
Meloni, dal fuorionda con Trump agli attacchi in Cina
Il rapporto con la stampa non è mai stato lineare. Lo scorso agosto, a margine di un incontro con Donald Trump, un fuorionda ha registrato Meloni mentre mormorava «I never want to speak with my press». La frase, diventata virale, ha certificato un fastidio già percepito nelle conferenze e nei corridoi. Gli episodi non mancano: risposte secche a domande sgradite, battute sarcastiche, richiami ai cronisti.
Nel luglio 2024, durante un viaggio in Cina, la premier accusò Repubblica, Domani e Fatto di «dipingere un’Italia falsa», scatenando la reazione dell’opposizione e della Federazione nazionale della stampa italiana. In quello stesso periodo era nato anche il contenzioso con Domani per un’inchiesta: la querela venne poi ritirata nel luglio 2024, ma il messaggio dissuasivo era arrivato. La Fnsi ha denunciato più volte il rischio di un “effetto bavaglio” e un clima professionale deteriorato, anche alla luce delle proposte di riforma della diffamazione considerate punitive.
Un modello comunicativo selettivo
I dati quantitativi aiutano a leggere il metodo. Pagella Politica distingue tre formati di interlocuzione: conferenze stampa, punti stampa e dichiarazioni. Nel 2025 prevalgono i format brevi, meno contendibili. Sul fronte delle apparizioni, tra gennaio e settembre si contano appena sette presenze televisive o live: due ai telegiornali Rai e Mediaset, una a un programma Rai, due a eventi organizzati da La Verità e Libero, una conversazione con Bruno Vespa. Nello stesso periodo del 2024 erano state 29. Le interviste alla carta stampata restano tre, come un anno fa. La selezione degli interlocutori è coerente: molte uscite in contesti amichevoli, pochissimo spazio al contraddittorio serrato.
C’è poi la distanza tra narrazione politica e verifica indipendente. La presidente del Consiglio ha rivendicato di aver risposto a “350 domande” nel 2024; il conteggio effettuato da Pagella Politica ne ha certificate 163, concentrate su pochi appuntamenti e in calo nella parte finale dell’anno. Numeri che non esauriscono il tema ma indicano una tendenza: la comunicazione istituzionale costruisce immagine, la trasparenza accetta il rischio del follow-up e il tempo necessario per rispondere davvero. Anche per questo la concentrazione delle quattordici risposte in due giorni all’Onu spicca: eccezione utile a fare titolo, ma poco risolutiva rispetto alla fisiologia di un rapporto con la stampa che, nel quotidiano, si restringe.
In gioco la democrazia
È qui la posta in gioco democratica. Non servono leggi speciali per limitare il diritto di cronaca: basta sottrarre occasioni di confronto, comprimere i tempi delle domande, screditare le testate critiche e concentrare gli accessi in contesti amici. L’articolo 21 della Costituzione tutela il diritto di informare e di essere informati: lo si onora non con i video autoprodotti ma con la disponibilità a farsi incalzare. Finché i numeri resteranno questi, la “trasparenza” rischia di abitare più i discorsi che la pratica. I dati, i casi e le cronache lo dicono con chiarezza: la premier parla, ma sempre meno con chi fa domande.