Ministeri inivisibili sui social media

di Luca La Mantia

Alla faccia del Governo moderno che strizza l’occhio all’innovazione. Se dovessimo giudicare l’esecutivo guidato da Matteo Renzi per come si relaziona con i cittadini ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli. Perché nel 2014 è impensabile che una pubblica amministrazione non sappia cavalcare le nuove piattaforme di comunicazione. è sui social network che si svolge ormai gran parte del dibattito pubblico. Ed è sempre sui social network che gran parte degli italiani (non solo i più giovani) si informa. Un buon amministratore dovrebbe quindi sapere che per rendere conoscibile la propria attività non si può prescindere da questi mezzi. Specie in una fase storica in cui la gente ha voglia di sapere come lo Stato si muove per soddisfare i suoi bisogni. Informazioni che devono essere alla portata di tutti e facilmente rintracciabili, senza bisogno di fare le chicane tra i diversi mezzi di comunicazione. I social media sono in grado di fare tutto ciò ed è un peccato che chi ci governa non se ne sia accorto. Basta andarsi a cercare su Twitter e Facebook i profili istituzionali dei ministeri per rendersene conto. Badate, qui non parliamo solo di presenza (quanti dicasteri hanno aperto un proprio account) ma anche di attività, cioè del volume di comunicazione prodotta e rivolta al cittadino.  Partiamo da Twitter, che, se ben usato, permette di fornire informazioni complete in poco tempo. Nulla quaestio sulla presenza. Ben dieci dicasteri su sedici hanno un profilo istituzionale. I grandi assenti sono quelli degli Interni, della Giustizia, dell’Economia (via XX Settembre ha un account non ufficiale) e i quattro diretti da ministri senza portafoglio. Bassa, in generale, la popolarità. Basti pensare che il più seguito su Twitter è il ministero della Difesa con poco più di 76mila follower. Segue, molto distanziato, quello dell’Ambiente con circa 14mila profili seguaci. Quello messo peggio è il ministero della Salute, con circa quattrocentosettanta follower, in pratica è come se non esistesse. Per quanto riguarda l’attività (cioè la quantita di tweet inviati) la situazione è ancora peggiore. Il più attento a fornire informazioni ai cittadini sulle proprie iniziative è il ministero dei Beni Culturali, che, però, sinora ha tweettato poco più di 4mila volte nonostante il suo profilo esista da cinque anni (è stato aperto a fine 2009). Appena sotto troviamo il ministero dell’Ambiente. Quello della Difesa (il più seguito su Twitter come abbiamo visto) dal 2011 (anno di apertura del profilo) a oggi ha cinguettato meno di 2mila volte. Andiamo ai peggiori perché c’è da divertirsi. Il dicastero della Salute ha tweettato sinora solo tre volte, quello del Lavoro, invece, 13 di volte. Un disastro, soprattutto se pensiamo ai temi di cui si occupano, che toccano direttamente la pelle dei cittadini. Zero comunicazione social anche per il ministero dei Trasporti, il cui account ufficiale, sinora, ha postato contenuti solo cinquantuno volte.Qualcuno dirà: vabene ma Twitter è ancora un social network poco conosciuto alla massa. Ma se ci spostiamo sul più popolare Facebook per analizzare il posizionamento dei ministeri la situazione peggiora e non di poco. Un dato su tutti: solo quattro dicasteri hanno una pagina fan istituzionale su Fb. Si tratta dei ministeri della Difesa, dell’Ambiente, delle Politiche Agricole e dei Beni Culturali. Non pervenuti gli altri.  Il migliore in questo caso è il Mibact. La page Fb del ministero diretto da Dario Franceschini ha, infatti, infatti ottenuto sinora più di 80mila “like”. Numero non eccelso per una pubblica amministrazione ma comunque apprezzabile. Il risultato è frutto di una buona attività. Basti pensare che ieri il Mibact ha pubblicato più di dieci post. Il più virale (una photogallery sul parco archeologico dell’Appia Antica) si è guadagnato più di settecento “mi piace”. Una dimostrazione di come una comunicazione fatta bene solletichi l’interesse degli internauti italiani. Secondo in classifica è il ministero della Difesa con una pagina fan da quasi 21mila “like”. In questo caso, però, l’attività è da rivedere, visto che, nell’ultimo periodo, sono stati pubblicati mediamente due post al giorno, tra l’altro con basso tasso di viralità. E andiamo ai due fanalini di coda. La pagina del ministero dell’Ambiente ha superato la quota dei 14mila “mi piace” ma ha ottenuto più di duecento “ne parlano” (dato che esprime la capacità di una page di generare dibattito tra gli utenti). Molto distaccato il Mipaaf che, con i suoi mille e passa “like”, chiude una classifica che non farà sorridere né Renzi né i suoi ministri.

 

Altro che rivoluzione digitale: Pubblica amministrazione lontana anni luce dalla rete

di Francesco Volpi

Tutto è ancora fermo alle promesse, come sempre in Italia. Lo Stato che vuole innovarsi e liberarsi della burocrazia urticante non ha ancora fatto passi rilevanti verso la riconversione digitale dei suoi uffici. Una rivoluzione, quella tecnologica, che per il momento si è impantanata nei soliti giochetti della politica. L’ultima a parlarne è stata Marianna Madia. Il ministro della Pubblica Amministrazione, varato il dl che apre alla riforma dello Stato, si è sbilanciata: “Il faro è che la Pubblica Amministrazione deve diventare più semplice e digitale – ha detto pochi giorni fa a Otto e Mezzo su la 7 – e non ci saranno più 8000 moduli diversi per ogni Comune ma un modulo unico, un pacchetto di semplificazioni. La digitalizzazione partirà dal 30 giugno”. Il primo step dell’annunciata rivoluzione dovrebbe essere quel Pin, previsto dal decreto sull’identità digitale, che consentirà ai cittadini di accedere alle procedure amministrative. Una misura che, nelle intenzioni del Governo, dovrebbe vedere la luce entro il 2015. E sarebbe bene che così fosse visti lo stato disastroso in cui continuano a versare i nostri uffici pubblici e la difficoltà della maggioranza dei cittadini a relazionarsi con ritardi, timbri e carte bollate. Ma, si diceva, per il momento si tratta di chiacchiere. La realtà è che l’Agenda Digitale Italiana è ancora in alto mare. Basti pensare chel’ente che dovrebbe occuparsene (l’Agenzia per l’Italia Digitale) dopo le dimissioni dell’ex direttore, Agostino Ragosa, è ancora acefalo. Lunedì si è chiuso il bando per la scelta del nuovo dominus dell’Agid. I candidati per il ruolo di direttore sono più di centocinquanta . Della questione si stanno occupando il ministro Madia (delegata da Renzi alla gestione dell’Agenda Digitale e dell’Agid) e il suo consulente Paolo Coppola, deputato Pd con il vizio dell’innovazione. Sui tempi della selezione è stato lo stesso Coppola a dare ampie rassicurazioni: “Chiusa la fase delle candidature, la nomina dovrebbe arrivare nelle prossime settimane” ha detto al Corriere della Sera. Una volta nominato il nuovo direttore dovrà subito mettersi al lavoro e dedicarsi a questioni da troppo tempo sul tappeto come, ad esempio, l’identità digitale. Al di la delle parole e dei proclami, insomma, c’è una digitalizzazione dell’apparato statale che stenta a decollare e su cui bisognerebbe agire senza indugiare ulteriormente. Anche perché lo stato di avanzamento dell’Agenda Digitale nel resto d’Europa ci mette sotto pressione. Secondo l’ultimo rapporto della Digital Agenda Scoreboard (incaricata dalla Commissione Ue di verificare i progressi nel settore dei ventotto paesi comunitari) il 60% degli italiani non ha competenze digitali. In particolare il divario dell’Italia rispetto agli altri stati europei può riassumersi in un dato: il 56% del tasso di penetrazione di internet rispetto al 90% dei paesi nordeuropei. Insomma buona parte degli italiani soffre di quello che gli esperti in materia chiamano analfabetismo digitale. Questa mancanza di competenze sul web si riverbera, inevitabilmente, anche sul problema della disoccupazione. La rivoluzione tecnologica ha, infatti, determinato un’impennata della domanda di figure professionali dotati di know how informatico. Secondo la Commissione Ue, tra l’altro, tra il 2015 e il 2020 in Italia potrebbero mancare circa 180mila posti nel ruolo di programmatore. Senza dimenticare l’atavico problema del digital divide che vede molte aree del nostro paese, specie nel sud, con un limitato accesso all’innovazione e al web. Lo stesso rapporto della Digital Agenda Scoreboard sottolinea che, mentre in Italia la banda larga è diffusa tra il 99% della popolazione, l’accesso alle reti di nuova generazione è limitato al 21% delle case italiane, contro il 62% degli altri paesi Ue.