Nessuna paura frena la tenacia di chi sogna. Nel libro di Lucia Pozzi la storia di Sara in cerca dell’intervista della vita. In un viaggio incredibile tra Roma ed Amman

C’è una frase di Paulo Coelho che, leggendo il romanzo di Lucia Pozzi (nella foto) Sognando Rania (Golem Edizioni, pp. 188, 16 euro), torna subito alla memoria: “Solo una cosa rende impossibile la realizzazione di un sogno: la paura di fallire!”. Sara, giovane donna che vive a Roma nel quartiere popolare di San Lorenzo, lo sa bene. Certo, sa anche che non può cedere al desiderio di mollare tutto per rincorrere i suoi sogni, ma ha al tempo stesso anche la tenacia di chi è convinto che, dopotutto, ognuno di noi abbia la strada segnata: basta trovare il modo di seguirla ed aspettare l’occasione per farlo. E Sara, emblema di una generazione mai passata e sempre presente, con i dubbi e le incertezze comuni a chiunque viva una condizione di precarietà (che è, prima di tutto, precarità esistenziale), ha un obiettivo apparentemente irraggiungibile: intervistare la regina Rania di Giordania per una rivista importante.

L’unico modo, crede, per uscire dall’anonimato e costruirsi un futuro. Ma un sogno senza tenacia soccombe dinanzi alla paura di fare il salto più lungo della gamba. Lei non demorde. Mai. E così una serie di tentativi e di strane coincidenze porteranno Sara sulla strada che la condurrà alla Casa Reale. Il viaggio incantevole tra due splendide città, Rome e Amman, le doneranno anche la gioia di un amore tanto passionale quanto indefinito. Sarà, però, un viaggio fisico e metafisico al tempo stesso, in un’evoluzione, antropologica prima ancora che sociale, da giovane ragazza a donna. Un viaggio in cui tutti noi possiamo immedesimarci. Perché anche noi, un po’ come Sara e sulla scorta dei suoi insegnamenti, abbiamo sogni da realizzare. Difficili, sempre. Impossibili, mai.

Riportiamo un estratto del libro di Lucia Pozzi

Mi faceva schifo quando il sudore di Mirna cadeva su di me. Almeno all’inizio. Poi mi ci sono abituata, come a tutto. O quasi. All’hammam ci sono sempre andata per immergermi nelle cose delle donne. Nelle loro movenze, nei discorsi, nei sorrisi e nelle civetterie del tè alla menta quando ci si rilassa dopo il massaggio prima di uscire.
La prima volta sono capitata con Mirna per caso.
Una corpulenta figura, cui era impossibile dare un’età, aveva appena finito di ripassarmi con il guanto di crine e lei era libera. Mi era piaciuto il suo sorriso aperto. Parlava un inglese migliore delle altre e forse per questo le affidavano preferibilmente le ‘espatriate’ come me.
Così chiamano ad Amman gli stranieri che vivono sul territorio: espatriati.
Poco importa poi che tu ci stia una settimana, un mese o un anno. Non sei dei loro e appartieni a una categoria ben precisa, quella della gente che viene da fuori.
Anche Mirna era un’espatriata. Era filippina. E a ben guardare di filippine ce n’erano diverse. Stavano tutto il giorno chiuse nell’hammam, a massaggiare grassi corpi di donne desiderose di rilassarsi e dedicare quel tempo a sé, almeno una volta alla settimana, per prepararsi alla preghiera o semplicemente farsi belle per il marito, in quell’umidità calda che è piacevole e ristoratrice se la vivi per qualche ora, ma ti ammazza di reumatismi e cervicale se ti abbraccia sette giorni su sette, dalla mattina alla sera.
Un giorno Salima, che aveva la responsabilità dell’ambiente e organizzava il lavoro, mi raccontò una storia. Mi disse che la donna che l’aveva preceduta nell’incarico era una vecchia che aveva sempre vissuto lì e che non sapeva fare altro. Non aveva famiglia, perché i parenti le erano morti tutti. E non aveva più casa, perché aveva dovuto vendersela per pagare i debiti lasciati da un marito che voleva far soldi esportando tessuti, ma quando Re Hussein dichiarò la legge marziale, nel settembre del 1970, venne bloccato dalla polizia, per il suo attivismo politico a favore della causa palestinese, e dovette emigrare. Finì in Egitto e nello Yemen, per qualche tempo. Poi di lui non si seppe più nulla. E lei si ritrovò sola, con quel passato pesante da saldare. Lo fece, con grande dignità.
Pagò i creditori fino all’ultimo dinaro, continuando a lavorare all’hammam. Che era diventata la sua casa. Se l’avessero mandata via per lei sarebbe stata la fine. Così il padrone faceva finta di non sapere e lei dormiva lì, spegneva la luce la sera e chiudeva la giornata in quelle poche stanze che ormai erano tutto il suo mondo.
Un giorno, senza dare disturbo a nessuno, morì. In silenzio. La trovarono una mattina raggomitolata e con il Sibha in mano. Se n’era andata in pace. Ma ancora oggi il suo spirito è lì, nell’hammam. A vegliare.
Salima lo sapeva e non faceva altro che ripeterlo alle ragazze. Con un tono misto di paura e ossequio per i morti.
Non riuscivo a non ripensare a quella donna anziana, a non immaginarmela di corporatura minuta e con gli occhi scavati, ogni volta che entravo nell’hammam. Ormai era un percorso familiare. Le rivolgevo un saluto silenzioso, quasi a rassicurarla che non avrei infranto nessuna regola, perché quello dell’hammam era diventato un rito per me, come per le donne arabe.
Era qualcosa di solo mio, di preparatorio, che passava attraverso l’igiene e la cura del corpo per confortare l’anima e sedare le ansie che mi portavo dietro dal mio mondo forsennato.
All’inizio facevo domande su quella particolarissima custode del tempio. Salima mi guardava e rideva, sapendo che avevo così tanta strada da fare per arrivare a comprendere la saggezza e la complessità del loro mondo. Mi leggeva nel profondo e, senza parlare, mi diceva «Datti tempo».
Avevo scelto il venerdì come giorno per l’hammam. Il giorno della preghiera. Il giorno dedicato ad Allah. Il vantaggio era che, andandoci in tarda mattinata, non lo trovavo mai affollato. Mirna si dedicava a me, sempre dopo la stanza dei vapori odorosi di alloro e di zolfo, le abluzioni nell’acqua calda e la pulizia della pelle con il guanto crespo. Il massaggio era lungo e silenzioso. Non parlavamo più come all’inizio, quando ci dicevamo qualche cosa per conoscerci e prendere un po’ di confidenza reciproca. Le sue mani umide e scivolose di sapone passavano ovunque sul mio corpo, soffermandosi qua e là per sciogliere una contrazione, rilassare la colonna vertebrale, premere il punto più alto del cranio per aprire la mente. Sentivo di esserle intimamente grata per quella sensazione di piacere e di libertà che mi pervadeva completamente.
La confidenza, tra noi, è venuta da sé. Il pudore l’ho lentamente dimenticato. Conoscevo le sue mani e ogni volta volevo quelle. Il suo tocco deciso, il suo saper rallentare quando non riuscivo a vincere le mie fobie, il suo sapersi rapportare alle mie rigidità.
Era faticoso stare là dentro per lei. Ogni tanto prendevamo il tè insieme quando avevo finito e mi ero rivestita. Nella saletta dietro la stanza dei massaggi. Avrei voluto darle dei soldi, pensavo di portarla in Italia per offrirle un futuro migliore. Ma con il passare del tempo questi pensieri sbiadivano sempre più.
Salima soffriva di mal di testa. Era Mirna a farglielo passare. Accadeva spesso che mentre sorseggiassimo il tè le facesse un massaggio per ridurre la tensione del collo. Così finiva che Mirna non si riposava mai. Eppure sorrideva, le piaceva il suo lavoro.
Quelle ragazze erano un po’ come una famiglia. Si aiutavano. Dividevano il lavoro e le aspettative. E le mance, in parti uguali. Senza stare a vedere a chi fossero state date e di quanto si trattasse. Era l’accordo, da sempre.
La cosa che mi piaceva di più, la mattina, era svegliarmi e trovare Paolo davanti alla moka sul fuoco. Lui aveva un modo tutto suo di fare il caffè: alla polvere aggiungeva due semi di cardamomo, poi seguiva con cura lo sgorgare del liquido nero dal beccuccio, fino a quando si formava una leggera schiuma che con un cucchiaino prelevava per sé.