“Attueremo le tregue a Gaza e in Libano con il pugno di ferro”. Con queste dure e belligeranti parole il premier israeliano Benjamin Netanyahu, parlando alla Knesset, è tornato a minacciare la pace nella Striscia. Pur assicurando che Israele è determinato a far rispettare gli accordi di cessate il fuoco, ha chiarito che lo farà “solo finché (tali accordi) esisteranno” e che, in caso di violazioni da parte di Hamas, non esiterà a ricorrere alla forza militare.
Mentre il leader di Tel Aviv ribadisce per l’ennesima volta la linea dura, ignorando le numerose violazioni del cessate il fuoco già commesse dallo Stato ebraico, la tensione nella Striscia di Gaza torna ad alzarsi pericolosamente. A minacciare la fragile tregua, più dei bombardamenti che non si sono mai realmente fermati, è soprattutto la sorte dei miliziani di Hamas ancora intrappolati nei tunnel di Rafah, ossia nell’area sotto il controllo dell’Idf. Sul punto, gli Stati Uniti continuano a spingere per un’intesa che consenta ai combattenti intrappolati di ottenere un salvacondotto in cambio della consegna delle armi. Finora, però, questo pressing sull’amministrazione Netanyahu non sta sortendo effetti, come confermano alcune fonti citate dal Times of Israel, secondo cui il primo ministro continua a opporsi alla proposta americana, al punto che avrebbe detto un secco “no” al presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.
La pace nella Striscia di Gaza resta appesa a un filo
Che quella in corso non sia una vera e propria pace lo ha ribadito il patriarca latino di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa, che ha ringraziato Trump per aver “riaperto la finestra dei negoziati”, riconoscendo agli Stati Uniti il merito di essere “l’unico Paese in grado d’imporsi nel quadrante”. Ma il cardinale ha anche frenato gli entusiasmi: “Parlare di pace è prematuro, non vi sono le condizioni minime”. E avverte che la soluzione dei due Stati “resta l’unica disponibile”, anche se oggi “Israele non la vuole e i palestinesi sono divisi”.
A confermare che la pace sia ancora lontana sono le ultime indiscrezioni di stampa, secondo cui una “divisione di fatto” della Striscia di Gaza è sempre più probabile. Secondo Reuters, contrariamente a quanto ipotizzato finora, la ricostruzione potrebbe limitarsi alla zona oltre la cosiddetta Linea Gialla, ossia quella controllata dalle forze armate israeliane, creando una separazione della Palestina destinata a durare nel tempo. In quest’ottica — che ha scatenato le inevitabili proteste del mondo arabo — l’intenzione dell’amministrazione Trump sarebbe quella di lavorare, assieme a Netanyahu, a un piano per costruire alloggi temporanei soltanto nella zona controllata dall’Idf, riservati ai palestinesi non legati a Hamas, di fatto ignorando il resto del territorio.
Cresce la tensione
In tutto questo, con i bombardamenti sulla Striscia che non si sono mai realmente fermati — a riprova di come questa tregua esista solo sulla carta — preoccupa anche la situazione degli aiuti umanitari che, secondo le Nazioni Unite, faticano ancora a entrare nella Striscia a causa di burocrazia, controlli e di un clima di forte insicurezza. Che le cose stiano così lo sostiene anche Hamas, secondo cui Israele, dall’inizio della tregua, avrebbe violato il cessate il fuoco ben 282 volte, causando la morte di 242 palestinesi e oltre 620 feriti.
Critica anche la situazione in Cisgiordania, dove da giorni proseguono le operazioni militari israeliane. Nelle ultime ore le forze dell’Idf hanno fatto irruzione a Beitunia, vicino Ramallah, lanciando bombe sonore e gas lacrimogeni per sedare le crescenti proteste dei civili palestinesi, scaturite dalle violenze che — ormai con cadenza quotidiana — vengono perpetrate nei loro confronti dai coloni israeliani. Tensioni che, se non si placheranno, potrebbero mettere seriamente in discussione la fragile tregua fin qui raggiunta.