Forza Italia ha trovato la sua nuova Madonna: una sentenza di Cassazione sulle misure di prevenzione. Ci soffia sopra, la lucida, la trasforma in reliquia politica: «La Cassazione ha smentito i rapporti tra Berlusconi e la mafia». La fonte è un pezzo de Il Foglio, cresciuto in rete fino a diventare ciò che la propaganda ama più di tutto: una verità comoda che non deve temere i documenti. Il problema è che i documenti esistono. E sono scritti proprio dai tribunali che oggi vengono usati come paravento.
Che cosa dice davvero la sentenza sulle misure di prevenzione
La decisione non è un processo penale. È un giudizio su sorveglianza speciale e confisca di prevenzione per Marcello Dell’Utri. La Cassazione ha confermato il No perché mancano i presupposti attuali: non è stata dimostrata oggi una pericolosità sociale e non è stata provata una provenienza mafiosa dei beni tale da giustificare la confisca. Fine dell’ambito. Non si è parlato di Berlusconi, non si è rivista la storia, non si è riscritto nulla. Sostenere che questo equivalga a “assoluzione” è un falso giuridico: prevenzione e processo penale sono binari separati, con logiche e soglie di prova diverse. Chi finge di confonderli non fa informazione: costruisce un alibi politico.
Che cosa resta scritto nelle sentenze penali definitive
C’è una sentenza del 2014 che continua a pesare come un atto notarile della storia del Paese: Marcello Dell’Utri è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa fino al 1992. Nelle motivazioni – confermate dalla Cassazione – Dell’Utri è ritenuto il mediatore stabile fra Cosa Nostra e l’imprenditore Silvio Berlusconi. Nel 2012 la stessa Suprema Corte aveva già riconosciuto come fatto storico l’esistenza di versamenti estorsivi pagati per proteggere le attività economiche, collocando il nome di Vittorio Mangano come snodo tra Arcore e i boss palermitani. Non ci fu processo a Berlusconi per prescrizione delle condotte, non per inesistenza dei fatti. Quei passaggi sono ancora agli atti. Nessuna pronuncia li ha cancellati.
E allora che cosa sta accadendo adesso? Una frase tecnica sull’assenza di prova che oggi i beni siano frutto di riciclaggio mafioso viene trasformata in «la mafia non c’è mai stata». È un contorsionismo perfetto: negare il riciclaggio attuale non significa negare il concorso esterno passato; dichiarare che Dell’Utri non è oggi socialmente pericoloso non cancella ciò che compì fino al 1992. Ma la propaganda ha bisogno di riabilitazioni rapide, soprattutto quando servono per costruire santini elettorali da sventolare sui social come ex voto giudiziari.
Uso politico della giustizia
Ecco allora l’uso politico della giustizia: si prende un’ordinanza tecnica e la si vende come sentenza di assoluzione storica. Si cancella la differenza tra prevenzione e penale. Si sposta il baricentro dal diritto alla narrazione. Ma le gerarchie dell’ordinamento sono chiare: le sentenze penali definitive vengono prima e sopra ogni lettura creativa di un provvedimento di prevenzione.
Chiudiamola qui: il d.lgs. 159/2011 chiede per la prevenzione pericolosità attuale e sproporzione patrimoniale. Non è un “processo bis”, non è un detersivo per lavare la storia giudiziaria. Marcello Dell’Utri resta un condannato definitivo per mafia. Le motivazioni di quella condanna collocano Silvio Berlusconi in un sistema di rapporti economici con Cosa Nostra. Nessun giudice ha mai smentito questi fatti. Nessuna Cassazione ha trasformato Mangano in un eroe. Oggi, mentre i profili ufficiali celebrano l’ennesimo miracolo azzurro, c’è una verità che non si scrolla via nemmeno con il filtro “nuova era”: i processi non sono hashtag, e la storia giudiziaria non svanisce solo perché un partito ha deciso che la memoria va ritoccata come una foto su Instagram.