L’accusa è nitida, e oggi ha un nome e una data: un funzionario diplomatico venezuelano sostiene che «il governo Meloni non ha mai chiamato Caracas» per discutere del dossier di Alberto Trentini, cooperante italiano detenuto in Venezuela da novembre 2024. La scrive nero su bianco Il Fatto Quotidiano, spiegando come l’anonimo funzionario venezuelano ritenga questo atteggiamento «infantile», nonché segno di «distacco e mancata volontà politica».
Cronologia di un’inerzia
Trentini viene fermato sulla tratta Caracas–Guasdualito il 15 novembre 2024 e scompare per mesi tra Dgcim e carceri speciali. A gennaio 2025 la IACHR (Osa) adotta misure cautelari a sua tutela; nello stesso periodo Palazzo Chigi convoca una riunione interministeriale e protesta formalmente con Caracas, annunciando «massima discrezione». Ma nessun contatto politico di vertice viene documentato.
Il primo, flebile segnale arriva solo a fine luglio: Trentini riesce a telefonare a casa. Il viceministro Edmondo Cirielli parla di «passo in avanti» e di «lavoro diplomatico in corso». Sono parole che non spiegano la sostanza: chi ha parlato con chi, quando, con quali impegni reciproci? Il comunicato resta generico.
Nel frattempo il governo nomina l’ambasciatore Luigi Vignali inviato speciale. La missione, annunciata, atterra a Caracas ad agosto ma non sarebbe stata ricevuta da alcun esponente dell’esecutivo Maduro: rinvio, ricalendarizzazione, nessun risultato. È il punto che più incrina la narrativa dell’«interlocuzione continua».
Dichiarazioni, smentite e responsabilità
La frase chiave di oggi («mai chiamato Caracas») stride con mesi di rassicurazioni pubbliche. Tajani, il 4 settembre, rivendica che «il governo non è immobile» e indica due rilasci avvenuti il 24 agosto (Americo De Grazia e Margarita Assenza). Ma la fonte venezuelana smentisce qualsiasi ruolo italiano nella scelta dei nomi: «l’Italia non ha toccato palla», si sarebbe trattato di una «scelta sovrana» e di un «affare interno», senza alcun coinvolgimento delle autorità di Roma riporta ancora Il Fatto.
Sul fronte umano, la madre di Alberto riceve una telefonata di cortesia da Giorgia Meloni ad aprile 2025; da allora, nessuna ricezione ufficiale a Palazzo Chigi e aggiornamenti frammentari. La comunicazione resta oscillante: silenzio quando servivano garanzie minime (visite, assistenza legale, terapie), poi enfasi mediatica su «segnali positivi» che non cambiano le condizioni materiali della detenzione.
Il confronto con altri casi coevi pesa. Gli Stati Uniti hanno ottenuto rilasci negoziando su un binario politico-umanitario; la Svizzera ha visto uscire un compagno di cella di Trentini. L’Italia, invece, ha scelto una postura rigida (non riconoscimento di Maduro) senza attrezzarsi con un «doppio binario» che separi il giudizio politico dalla tutela del cittadino. Il risultato è lo stallo.
Resta, inoltre, l’incidente della missione diplomatica: in diplomazia non si vola «al buio». Se l’interlocutore non ti riceve, significa che il canale politico non esiste o non è stato coltivato. È qui che la frase del funzionario venezuelano assume il peso specifico di una prova indiretta.
Che cosa manca oggi. Tre dati verificabili, che il governo potrebbe fornire in un minuto: date e interlocutori delle telefonate ai massimi livelli; esito delle richieste di visita consolare dalla prima nota verbale in poi; il mandato negoziale (con eventuale cornice Ue/Osa o Santa Sede) consegnato all’inviato speciale. In assenza di queste risposte, le responsabilità politiche restano scolpite: ritardi iniziali, missione preparata male, comunicazione opaca con la famiglia, sovrapposizione di propaganda e informazione.
In attesa di una smentita puntuale, resta un fatto: a oggi, 8 settembre 2025, Alberto Trentini è detenuto da quasi 300 giorni e non c’è una sola evidenza pubblica di un vero negoziato politico Italia–Venezuela sul suo nome. Tutto il resto è propaganda sulla pelle di un italiano detenuto senza la formalizzazione delle accuse, della sua famiglia, dei suoi amici.