Non c’è linea sui call center. Calenda fuori tempo massimo. La legge anti-delocalizzazioni è in ritardo

Per il Governo la crisi del settore dei call center rischia di trasformarsi in una bomba sociale

Non solo Almaviva. Per il Governo la crisi del settore dei call center rischia di trasformarsi in una bomba sociale, come dimostra l’allarme recentemente lanciato dai sindacati nel corso di un’audizione in commissione Lavoro al Senato. “Se non risolve la questione entro breve”, hanno avvisato le parti sociali, “nel giro di qualche mese ci saranno 70-80mila posti a rischio”. Numeri monstre, se si considera pure il referendum alle porte e il rischio di un effetto domino in termini elettorali. Ecco perché il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, ha annunciato di voler intervenire con un provvedimento ad hoc nel quale saranno inserite norme sulle delocalizzazioni e sugli ammortizzatori sociali, viste le lungaggini del ddl Concorrenza, impantanato nelle secche del Senato. Provvedimento, questo, all’interno del quale sono contenute misure specifiche proprio contro lo spostamento dei processi produttivi in altri paesi. Il problema è che non si sa se (e quando) vedrà la luce.

NORMA COL BUCO
L’intento del numero uno del Mise si scontra però contro un quadro generale a tinte molto fosche. Ecco perché l’esecutivo rischia di ritrovarsi fuori tempo massimo. “Non solo l’idea di una legge del genere è tardiva, ma anche il piano Industria 4.0, che prevede uno stanziamento di 13 miliardi di euro in tre anni per sostenere le imprese italiane nel processo di digitalizzazione”, spiega a La Notizia il deputato di Sinistra italiana Erasmo Palazzotto, “rischia di trasformarsi nell’ennesimo regalo alle aziende. Si tratta di un programma che non produrrà alcun miglioramento delle condizioni dei lavoratori, compresi quelli dei call center, vista la totale assenza di politiche che ne tutelano i diritti”. Non solo. “Il Decreto sviluppo del 2012 – ricorda ancora Palazzotto – prevede che quando un cittadino effettua una chiamata ad un call center deve essere informato preliminarmente sul paese estero in cui l’operatore con cui parla è fisicamente collocato e deve poter scegliere che il servizio richiesto sia reso tramite un operatore collocato nel territorio nazionale, al fine di garantire il rispetto alla protezione dei suoi dati personali”. Invece “la legge viene costantemente aggirata, anche a causa dei pochissimi controlli effettuati dal ministero”. Così facendo, “anche grazie allo sfruttando del meccanismo del massimo ribasso, negli ultimi anni c’è stata una diminuzione di oltre il 20% del livello salariale dei lavoratori”, conclude il parlamentare di Sinistra italiana.

FUORIGIOCO
Sulla stessa lunghezza d’onda viaggia anche Giorgio Serao, responsabile Tlc della Fistel Cisl nazionale. “La situazione è arrivata a toccare livelli insostenibili”, rivela il sindacalista. “Si sta andando incontro ad una destrutturazione complessiva del settore: il rischio è che quello che ha coinvolto Almaviva sia solo il primo caso di una lunga serie”. Anche Serao, parlando con La Notizia, punta il dito contro l’articolo 24-bis del Decreto Sviluppo. “Non ha funzionato”, dice senza mezzi termini, “soprattutto per quanto riguarda le sanzioni da comminare alle imprese che non rispettano le regole. E anche il ddl Concorrenza, tramite il quale si sarebbe dovuto intervenire attraverso norme chiare e precise, è bloccato”. Ma non è finita qui. “A conti fatti, in questo settore pure le decontribuzioni previste dal Jobs Act non hanno avuto alcun effetto positivo per i lavoratori ma solo per le imprese”. Il motivo? “Sostituire i dipendenti anziani con i giovani, pagati meno perché assunti attraverso un processo di gare al massimo ribasso, vuol dire azzerare qualsiasi possibile beneficio e destabilizzare il comparto”. Insomma, siamo fermi al palo. Il rischio, manco a dirlo, è che a pagare il prezzo più alto siano sempre e solo i lavoratori. “Nell’incontro che abbiamo avuto nei giorni scorsi al Mise – rivela Serao – il ministro Calenda ci ha spiegato di aver inviato una lettera alle principali aziende pubbliche e private chiedendo loro di mettersi in regola con i dettami della legge, concedendogli un mese di tempo”. Basta questo? “No, ma è un primo passo”. L’importante è che il piede non sia in fuorigioco. Il rischio è alto.