Non regge più il Medio Oriente fatto a tavolino

da New York
Massimo Magliaro

Una volta a ribollire era il Medio Oriente. Tutta la grandissima area che agli inizi del ‘900 venne ridisegnata a tavolino da inglesi e francesi vive di una permanente instabilità. Non reggono quei confini. Non reggono certe esclusioni. Non reggono certe vere e proprie invenzioni fatte a tavolino. Ma ribolle anche un altro pezzo, fondamentale, della cerniera che unisce l’Europa a questa area mediorientale, la Turchia. E’ insomma una bella fetta del mondo islamico che appare scossa da convulsioni il cui esito non è dato di prevedere. Ribolle proprio quella parte dell’Islam che è più vicina all’Occidente europeo.

Siria, la guerra infinita
La guerra interna alla Siria è lungi dall’essere conclusa ma gli ultimi eventi sul terreno militare fanno pensare che abbia ragione il ministro israeliano degli Affari internazionali, della Strategia e dell’Informazione, Yuval Steinitz, il quale poche ore fa ha detto che il presidente Bachar al-Assad si avvia a vincere.
Per queste parole si è beccato i distinguo dei sui colleghi titolari degli Esteri e della Difesa.
Dopo la durissima battaglia per la riconquista della cittadina, strategicamente assai importante, di Qusseir, le truppe del regime hanno completato la riconquista di Homs, terza città del Paese, ed ora, come anche noi avevamo previsto, stanno all’assalto di Alepp, seconda città siriana.
Riprendere Aleppo vuol dire per il regime degli Assad evitare ogni smembramento della Siria. E per gli oppositori significa non avere più il controllo neanche di un piccolo pezzo di terra siriana. Forse anche per questo i gruppi che si oppongono ad Assad hanno detto che non andranno alla 2a Conferenza internazionale di pace che si dovrebbe svolgere a luglio a Ginevra. Fino a questo momento dalla Siria in fiamme è scappato un milione circa di persone.

La via della Giordania
Di queste 460.000 in Giordania. Subito Washington ha stanziato 200.000 dollari per consentire alle autorità di Amman di far fronte alla situazione. Nei giorni scorsi il premier israeliano Benjamin Netanhyau è andato segretamente nella capitale giordana per discutere col Re Abdallah II se era possibile far arrivare, via Giordania, armi ai ribelli. Il Re gli ha detto di no, perchè lui non se la sente di entrare in un conflitto scoppiato in un Paese confinante.Non si sa mai. Netanhyau, che peraltro già allora non era granchè convinto di dare su un piatto d’argento delle nuove opportunità ad Al-Qaeda, ne ha preso volentieri atto.
La settimana scorsa ad Amman c’è andato il presidente americano Barak Obama. Ha riempito di elogi il Re per la “saggezza” dimostrata in occasione delle prime manifestazioni dell’opposizione interna, allo sbocciare delle cosiddette primavere arabe.
E ora, in Giordania, fino al 20 giugno si svolgono importanti manovre militari congiunte. Si chiamano “Eager Lion 2013”. Vi partecipano 8000 soldati (4500 americani, 3000 giordani, il resto di altri Paesi fra i quali l’Italia). Tema di queste manovre: la lotta contro i terroristi e contro le rivolte di piazza. Lo hanno detto al primo incontro con i giornalisti il gen. Awan el-Edwan, capo operativo delle Forze Armate giordane, ed il gen. Robert Catalanotti, capo del Coordinamento operativo delle truppe americane.
Al termine di queste manovre per Amman, ultimo fedele alleato mediorientale degli Usa, ci sarà un utile cadeau: resteranno sul suo territorio i missili Patriot e, quasi sicuramente, gli F-16 prestati per l’occasione.
Vuol dire che ha ragione chi sul “Washington Times” della scorsa settimana scriveva che Obama teme, e parecchio, il contagio siriano per il prezioso alleato giordano.
D’altra parte la presenza di Al-Qaeda incombe su tutte queste vicende. Due giorni fa l’erede di Bin Laden, al-Zawahiri, in un videomessaggio ha invitato i suoi fedeli ad attaccare la Siria definita addirittura “amica dell’America e di Israele”.

Turchia, ritorno al passato
La Turchia fa parte di questi grandi sommovimenti che investono il mondo islamico. Con Kemal Ataturk era diventata il modello di un sistema islamico moderno di governare quei Paesi. Il sistema ha retto fino a quando ha vinto le elezioni generali il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP). Da quando Tayyp Erdogan é andato al potere, la Turchia ha cominciato sempre di più a smettere di essere laica e si è incamminata verso un graduale fondamentalismo.
La rivolta che oggi la sta squassando nasce da qui. Non è solo questione dei 700 alberi che il sindaco di Ankara vuol tagliare nel parco di Gezi vicino a pizza Taksim per far posto ad un gigantesco edificio di stile ottomano. E’ questione di dire sì o no al fondamentalismo prudente di Erdogan.
La partita appare tutta aperta. La seguono con estrema attenzione le Cancellerie di tutti i Paesi (G8, Nato) a cominciare dai vicini, perchè è una partita davvero grossa. Tutti sanno, a cominciare dai protagonisti, che da questa vicenda, cominciata apparentemente all’improvviso il 28 maggio, la Turchia uscirà o europea o iraniana. Più che una primavera quella turca è una estate al calor bianco.