di Gaetano Pedullà
È stanco di vivere da super protetto. Vuole una vita normale. E se non è possibile, lasciare l’Italia. Roberto Saviano, icona dell’antimafia ex grande amore della sinistra, racconta in tribunale la sua vita da recluso. E le sue parole infiammano il popolo di internet. C’è chi lo detesta perché ha fatto i soldi senza essere Falcone e Borsellino – perché in Italia si deve morire per essere eroi? – e chi lo demonizza per penoso calcolo politico, come se a destra non ci sia chi sente il dramma della mafia quanto e più che a sinistra. Saviano è un giornalista, può piacere o no, ma ha fatto contro la Camorra molto più di tutti i suoi detrattori messi insieme. E in fin dei conti, ha fatto molto più anche di quanti lo hanno elevato a simbolo, accucciandosi comodamente al riparo dei suoi libri e dei suoi discorsi. Di questi opinionisti che non si sono mai sporcati le mani, compresi tanti giornalisti, non abbiamo davvero bisogno. Perché l’Italia è un Paese corrotto e terribilmente soffocato dalle organizzazioni criminali. Mafie che non hanno volto, ma che riforniscono ogni giorno le nostre città di droga. Che controllano fenomeni in grandissima crescita grazie all’economia che non gira: usurai, traffici di esseri umani, prostituzione. Ma soprattutto appalti. La storia che raccontiamo oggi all’interno ha dell’incredibile. Persino la società che sta costruendo gli uffici della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria bloccata perché in odore di rapporti con la ‘ndrangheta. Non è un caso isolato. Il filone calabrese dell’inchiesta che tocca l’ex tesoriere della Lega Nord, Belsito, ci racconta di come criminalità e politica si tocchino anche dove meno te l’aspetti. Di Saviano e di giornali che raccontino tutto questo malaffare ne servono di più. Di polemiche, invece, molte meno.