All’alba di ieri l’esercito israeliano ha intercettato una nuova flottiglia umanitaria coordinata da Freedom Flotilla–Thousand Madleens e diretta a Gaza, a circa 120 miglia nautiche dalla costa. Dieci imbarcazioni, 145 persone tra medici, giornalisti e attivisti di venti Paesi, sono state sequestrate e portate ad Ashdod. È la seconda operazione in una settimana contro missioni civili che trasportavano cibo e medicinali. Israele parla di “applicazione del blocco”, ma il diritto del mare parla di pirateria: erano acque internazionali, non zona di guerra.
Le comunicazioni in diretta sono state interrotte dai militari; da Istanbul, gli organizzatori denunciano «un rapimento politico» e «la distruzione di aiuti umanitari destinati agli ospedali di Gaza».
Mentre il mare si chiude, la Striscia continua a bruciare. Ieri i bombardamenti hanno colpito Deir al-Balah e Rafah: almeno 28 morti, tra cui 11 bambini. I droni hanno centrato una scuola usata come rifugio. L’UNRWA parla di «cimitero di famiglie». Le forniture d’acqua restano interrotte da tre giorni nel nord, e i convogli umanitari bloccati al valico di Kerem Shalom.
Sul fronte diplomatico, a Sharm el-Sheikh prosegue la farsa del negoziato. Il piano egiziano–americano prevede una tregua di sei settimane, ma senza garanzie sul ritiro israeliano né sul ritorno degli sfollati. Israele pretende il controllo permanente dei valichi e il “filtraggio” degli aiuti: un armistizio condizionato che perpetua l’assedio sotto altra forma.
La legalità internazionale resta la prima vittima di questa guerra. Chi cattura navi civili e bombarda scuole mentre parla di pace non cerca sicurezza: impone l’impunità.