Olimpiadi invernali: tra retorica della sostenibilità e proclami di impatto zero, la montagna presenta il conto

Olimpiadi Milano-Cortina: frane e cantieri a rischio rivelano l’incompatibilità tra mega-eventi e territori fragili

Olimpiadi invernali: tra retorica della sostenibilità e proclami di impatto zero, la montagna presenta il conto

Non è bastata la retorica della sostenibilità né la promessa di infrastrutture “a impatto ridotto”. A un anno dall’apertura dei Giochi Invernali 2026, la montagna ha risposto con le sue regole: a fine giugno, una serie di frane e colate detritiche ha isolato Cortina lungo la SS 51 “Alemagna”, bloccando i lavori per la variante olimpica di San Vito di Cadore e confermando quello che i geologi denunciano da tempo: le Dolomiti bellunesi non sono una vetrina, ma un corpo vivo e instabile, refrattario ai ritmi imposti dai cantieri.

Le colate – tra i 40.000 e i 50.000 metri cubi di materiale – hanno evidenziato la fragilità strutturale di un territorio dove si contano oltre 5.900 frane attive, due terzi di quelle registrate in tutta la regione Veneto. È un dato che si aggrava con la pressione di un modello di sviluppo olimpico che spinge dove non dovrebbe: in aree di croda marcia, lungo pendii in movimento, sopra letti detritici già collaudati dal tempo.

Olimpiadi, costruzioni in cerca di equilibrio

Emblematico il caso della cabinovia Socrepes, costruita in una zona classificata con pericolosità geologica da “media” a “elevata” (P2-P3) e definita “non compatibile” persino dal Comitato Regionale VAS della Regione Veneto, che ne ha attestato l’inammissibilità per il rischio di frane attive. Nonostante ciò, l’opera è andata avanti nel nome della logistica olimpica, ignorando alternative previste dal dossier originario.

A Fiames, il villaggio olimpico da 377 casette in legno sorge in piena zona a rischio idrogeologico. L’area opposta della valle è soggetta a caduta massi. Eppure si procede. La promessa di temporaneità è già saltata: le strutture resteranno almeno fino al 2028. La reversibilità dell’impatto è diventata una postilla marginale.

Intanto la pista da bob – 120 milioni di euro, un lariceto secolare abbattuto e una funzione post-olimpica tutta da dimostrare – rimane il monumento al disallineamento tra retorica e realtà. Il Cio stesso aveva sollevato perplessità, proponendo come alternativa l’impianto di Innsbruck, già esistente e pienamente operativo. Ma non è stata un’opzione contemplata: l’Italia ha preferito scavare e tagliare.

Olimpiadi, tra rischi e piano d’emergenza

Poi c’è la viabilità. La SS 51 è l’unico asse strategico per raggiungere Cortina. La sua vulnerabilità – più volte confermata dai fatti – rende la logistica olimpica un azzardo: bastano due giorni di pioggia per spezzare i collegamenti, isolare gli atleti, bloccare i soccorsi. Le strade alternative non sono in grado di reggere il carico di un evento planetario. Non esiste un vero piano d’emergenza. E il consigliere regionale di Europa Verde, Andrea Zanoni, parla apertamente di “disastro internazionale in potenza”.

La Regione Veneto ha risposto invocando efficienza e rilancio. Il presidente Luca Zaia, dopo aver dichiarato lo stato d’emergenza, ha ribadito che “il Veneto farà la sua parte”. Ma i suoi uffici tecnici hanno firmato pareri che smentiscono politicamente le scelte fatte. Una paradosso istituzionale che alimenta la distanza tra chi disegna le mappe e chi quelle mappe le legge per capire dove è prudente costruire.

Le associazioni ambientaliste parlano apertamente di “greenwashing olimpico”. Il Comitato “Insostenibili Olimpiadi” ha raccolto l’adesione di Cai, Wwf, Legambiente, Mountain Wilderness. Il loro allarme non è ideologico ma tecnico: mancano valutazioni ambientali strategiche di sistema, i piani di mitigazione restano formalità cartacee in una realtà in cui le montagne si muovono per davvero. Il caso Cortina è più di un incidente di percorso.

È lo stress test di un intero modello: quello che invoca la montagna come brand ma ne ignora la biografia geologica. Le frane non sono anomalie: sono la regola. E ogni cantiere che le ignora, è un debito strutturale di cui la la montagna presenterà il conto – prima o poi – al governo di turno.