Opposizioni in ordine sparso. Pure sulla difesa delle istituzioni

Non solo la guerra in Ucraina e l'inceneritore di Roma. Sinistra e M5S non si incontrano più su nulla.

Opposizioni in ordine sparso. Pure sulla difesa delle istituzioni

Come sono amate le consultazioni politiche qui da noi. Perfetto lo schematismo dei turni che semplifica il lavoro dei giornalisti e dei commentatori. Un partito alla volta si viene ricevuti dall’autorità più alta e per Giorgia Meloni il caravanserraglio compito dei suoi avversari rimessi in riga è una soddisfazione inimmaginabile. Piace anche all’opposizione. Hanno qualche minuto di insperata visibilità gruppi che solitamente non finiscono nemmeno nei pastoni della cronaca politica ma soprattutto hanno la possibilità di farsi notare quelli che al governo tendono la mano, più o meno sguaiatamente, fin dal primo minuto dopo le elezioni.

Non solo la guerra in Ucraina e l’inceneritore di Roma. Sinistra e M5S non si incontrano più su nulla

Così il cosiddetto Terzo polo, che è in macerie sui giornali ma è in ottima salute là dove serve stare insieme per non perdere i soldi pubblici, si presenta al gran completo con Carlo Calenda per Azione, Maria Elena Boschi per Italia Viva e i capigruppo di Camera e Senato, Matteo Richetti e Raffaella Paita. Se della giornata di ieri dovessimo scegliere una foto come sunto dell’ipocrisia sarebbe quell’amichevole brigata di fratelli coltelli perfetti nel rito, con Meloni a officiare. Perfino l’assenza di Matteo Renzi che dice quello che ha da dire dalle pagine di un quotidiano di cui si è ritrovato direttore è il sintomo di una realtà politica e metafisica, dove l’etichetta si sostituisce alla realtà. Il primo comandamento nella Repubblica delle bicamerali e della consultazioni è fingere di crederci. Non è uno sforzo difficile.

Basta dimenticare quei quaranta tra Camera e Senato che sotto la guida di Aldo Bozzi avrebbero voluto cambiare 44 articoli della Costituzione e si sono arenati nei propri gruppi parlamentari. Non è difficile dimenticare nemmeno la bicamerale De Mita-Iotti che si dissolse in quel 1994 che raccontano come fine della Prima Repubblica. Conviene a sinistra dimenticare in fretta quel “patto della crostata” sconfessato da Silvio Berlusconi nel 1997 in cui Massimo D’Alema cedette alla tentazione del presidenzialismo sull’onda lunga dell’uomo forte che era sempre piaciuto a destra. Dimenticato tutto questo si può fingere di sedersi a parlare di presidenzialismo fingendo di non sapere che il pallino della discussione sia in mano al governo più inaffidabile nella distinzione dei poteri e nella tentazione all’autoritarismo che avessimo mai potuto immaginare.

“Sì al sindaco d’Italia ma Mattarella non si tocca”. “Non abbiamo ancora parlato di riforma elettorale”. Le dichiarazioni di questi giorni si trascineranno per mesi, golose solo per gli addetti ai lavori e per gli appassionati. Verranno limate, ritoccate, contraddette, rovesciate, negate, respinte dal governo e poi accolte e poi respinte ancora. Un gioco estenuante che infiamma gli addetti ai lavori e gli appassionati ma interessa pochissimo ai cittadini là fuori. Anche questo non sarà un problema: accusarli di ignorante populismo sarà un’altra occasione di posizionamento politico.

Un dato però è già chiaro: poco interessa a Meloni il gioco di logoramento (anche sulle riforme) dei suoi invidiosissimi alleati Matteo Salvini e Berlusconi che patiscono il ruolo da comprimari. La tranquillità di Giorgia Meloni è garantita dall’opposizione che non c’è, né sulla carta né sulle idee. La prima giornata di consultazioni sulle riforme, come tutte le altre giornate di questo governo, conferma che i partiti di minoranza vanno in ordine sparso, più preoccupati dal perdere un decimale di voti a favore dei partiti vicini che dal campo regalato a Meloni e compagnia.

Presentarsi al tavolo delle riforme è un’altra occasione persa per far raccontare al Paese che esiste una lontana possibilità di alternativa. Partito Democratico e Movimento 5 Stelle sono più impegnati a difendersi tra loro che a elaborare un piano per il futuro, anche il più prossimo. Nel centrosinistra è una promessa non mantenuta (e nemmeno cominciata) quella di impegnarsi sulla ricerca di punti comuni per lavorarci insieme e incalzare il governo. Dietro l’angolo c’è l’errore di sempre: forzare una comunione politica solo per esigenze elettorali senza prendere in considerazione l’idea di partire da lontano.

Anche sulle riforme Giorgia Meloni ha di fronte la gestione delle sue truppe e il fastidio degli altri alla spicciolata. Mentre questi si fregano le mani sperando di riuscire a guastare la Costituzione l’opposizione che non c’è si imbambola sulle differenze, bombardata dal Terzo polo che delle differenze tra Giuseppe Conte e Elly Schlein ne ha fatto un genere letterario. Così la narrazione del governo è fin troppo facile: noi corriamo e quelli litigano tra loro. È una frase stupida e irreale, certo, ma funziona. E continuerà a funzionare dare la colpa all’opposizione per gli errori di governo. Conte, Schlein, Nicola Fratoianni e tutti quelli che ci vorrebbero stare: ne vale la pena?