Ora il Pd pensa al congresso. Chi vince si tiene il nome

di Francesco Nardi

Napolitano è riuscito nel miracolo di mettere il Paese sulla via di un governo. E’ arrivato fin dove la Costituzione gli ha consentito di spingersi. Per il resto tocca a Letta. Il Pd, in questo modo sollevato dalle rogne di governo, ha adesso tutto il tempo per concentrarsi su altro e per far esplodere senza ormai alcun pudore residuo la battaglia interna. Ammesso che ci siano ancora bubboni inesplosi e fatto salvo l’impegno di andare in Parlamento compatti a onorare il patto con il Capo dello Stato.
Certo, resta ancora il totoministri come occasione buona per accapigliarsi e far danni, ma superato questo non c’è davvero altro cui i piddini possano nuocere se non il loro stesso partito. Ed è infatti esattamente così che andrà a finire.

Chi ci crede ancora
Bersani, lasciando formalmente la guida del partito in occasione dell’ultima direzione nella quale è entrato da segretario, ha trovato la forza e la responsabilità di ribadire la sua fiducia nel progetto del Partito democratico: «Io ci credo» ha detto, ma non è più solo questione di fiducia, ma di reale praticabilità di un percorso probabilmente compromesso ormai oltre ogni possibilità di recupero.
Quello che spiove sul prossimo congresso è lo skyline oltre il quale gli sguardi democratici non possono spingersi. Immaginare cosa verrà dopo è possibile, ma evoca scenari che oggi mettono a rischio anche l’indispensabile apparenza di unità che serve almeno fino all’insediamento di Letta a Palazzo Chigi.
In verità c’è chi nel partito è convinto che il nuovo premier possa addirittura riuscire a disinnescare il regolamento di conti finale. Se infatti l’esecutivo dovesse riuscire a soddisfare le aspettative, gli animi potrebbero calmarsi e i capicorrente (sarebbe ipocrita chiamarli diversamente) potrebbero trovare utile non anticipare a giugno l’appuntamento congressuale e tenerlo a ottobre come previsto. Dipende però da tante cose, e tra questa assume enorme rilevanza la composizione dell’esecutivo. Perché accontentare Re Giorgio potrebbe costare molto alle varie anime del Pd, e a qualcuna il costo potrebbe sembrare anche insostenibile.
Ad ogni modo, il futuro è irrimandabile, e i cittadini che in questi giorni si stanno recando spontaneamente ai circoli piddini per prendere la tessera hanno fatto suonare un campanello nella testa dei capibastone: perché se congresso dovrà essere a breve, allora le iscrizioni inizieranno altrettanto presto ad essere una priorità.

Il premio finale
La posta in gioco del resto è altissima e paradossalmente la sfida interna questa volta pone l’asticella ancora più in alto della conquista della segreteria. Perché non è semplicemente di questo che si tratta. Chi perderà il prossimo congresso infatti molto difficilmente resterà nel partito a subire l’egemonia del vincente: è molto più probabile, se non addirittura scontato, che gli sconfitti abbandonino il progetto dando vita a nuove formazioni complementari se non addirittura alternative al Pd, dando così il via a quella scissione di cui tanto si scive da mesi.
Così chi vincerà – a questo si riduce la corsa – si aggiudicherà il brand del Partito democratico e cercherà di estrarne i frutti residui, scremati o forse potenziati dalla scissione immediatamente conseguente.
Se a prevalere sarà l’ala sinistra, quella che trova in Barca il possibile condottiero e in Vendola la disponibile sponda esterna, allora sarebbe Renzi a cedere alle insistenze che da mesi gli chiedono di lasciare il Partito democratico al suo destino. Viceversa, se fosse il sindaco di Firenze ad aggiudicarsi la palma congressuale, toccherebbe all’uscente ministro della Coesione territoriale migrare verso altri lidi ed altrettanti simboli. Di certo, comunque vada, per il progetto originario del Pd non sarà un successo.

@coconardi