Ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi: in Palestina è il linguaggio che decide chi è umano

Nella stampa e nella politica italiana la vita israeliana vale più di quella palestinese. E la disumanizzazione diventa norma

Ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi: in Palestina è il linguaggio che decide chi è umano

Lunedì 13 ottobre 2025 Hamas ha liberato gli ultimi venti ostaggi israeliani vivi, mentre Israele ha avviato il rilascio di circa millenovecento prigionieri palestinesi. Il giorno dopo la Croce Rossa ha preso in consegna quattro salme di ostaggi e ha segnalato che il recupero degli altri corpi richiederà tempo per la distruzione diffusa a Gaza. La notizia ha dominato le prime pagine, ma la simmetria dello scambio si è dissolta appena aperti i giornali: gli israeliani restano “ostaggi”, i palestinesi “prigionieri”. Gli uni hanno volti e nomi, gli altri numeri e sospetti.

Le parole che separano le vittime

Un’analisi dei principali media italiani mostra una regola costante: empatia per gli israeliani, linguaggio burocratico per i palestinesi. I primi sono descritti come «ostaggi rapiti», «vittime innocenti», «persone da salvare»; i secondi come «detenuti», «scarcerati», talvolta «condannati». Nei titoli, la sproporzione è netta: «Liberati venti ostaggi israeliani» accanto a «Rilasciati 1.950 detenuti palestinesi». Nessuna biografia, nessuna foto, nessuna famiglia da mostrare.

Secondo l’Osservatorio di Pavia e Cospe, nel periodo 11–15 ottobre il 93% delle voci nei servizi televisivi su Gaza era italiano: i giornalisti palestinesi, oltre duecento dei quali uccisi secondo l’Onu, restano invisibili anche nel racconto della tregua. Eppure i dati forniti da B’Tselem e HaMoked parlano chiaro: oltre 11.000 palestinesi in custodia, di cui 3.500 senza processo e centinaia di minori detenuti sotto regime amministrativo. Ma nei telegiornali diventano “scarcerazioni per la pace”, un eufemismo che cancella la realtà della detenzione arbitraria.

La grammatica dell’empatia

Il lessico non è neutro. “Ostaggi” evoca innocenza e vulnerabilità; “prigionieri” suggerisce colpa e legalità. In Italia questa dicotomia è ripetuta fino alla saturazione, trasformando un fatto politico in un atto linguistico: si umanizzano i primi e si spersonalizzano i secondi. I servizi televisivi moltiplicano i primi piani dei ricongiungimenti familiari israeliani, mentre i rilasciati palestinesi sono mostrati in massa, come folle indistinte.

Gli studi più recenti – da Communication, Culture and Critique all’Institute for Palestine Studiesdocumentano lo stesso meccanismo: il pubblico riconosce come vittime solo coloro di cui conosce il volto. Gli altri diventano “rumore statistico”. L’empathy gap, il divario di empatia, è il risultato più tangibile di questa asimmetria: non c’è uguale diritto al dolore, né uguale diritto alla narrazione.

Gli israeliani vengono «uccisi» o «massacrati» da Hamas; i palestinesi «muoiono» o «perdono la vita». La differenza grammaticale coincide con una differenza morale: la violenza israeliana viene depotenziata, quella palestinese enfatizzata. Il massacro di Nuseirat dell’8 giugno 2024, con 274 palestinesi uccisi e 698 feriti per liberare quattro ostaggi, fu raccontato come «operazione di salvataggio». Le vittime, solo un dettaglio di contesto.

Il condizionamento politico della stampa

L’allineamento politico italiano con Israele resta saldo. Giorgia Meloni ha parlato di «pace giusta», ma non ha mai pronunciato la parola “genocidio”, nonostante la Commissione d’inchiesta Onu abbia riconosciuto a settembre «atti di natura genocidiaria». Antonio Tajani ha ribadito che «Israele ha diritto a difendersi» senza mai citare le torture e le detenzioni illegali documentate da Amnesty International.

Questo orientamento si riflette nella copertura mediatica. Il rapporto Illuminare le periferie mostra che il termine “genocidio” è comparso nei telegiornali solo come citazione, mai come formulazione redazionale. I talk show ospitano quasi esclusivamente analisti occidentali e politici italiani; le voci palestinesi vengono relegate a testimonianze marginali. Persino dopo il cessate il fuoco del 10 ottobre, le telecamere restano puntate sugli “ostaggi liberati”, non sui 250 corpi palestinesi estratti dalle macerie nei primi giorni di tregua.

La disumanizzazione non è un effetto collaterale ma un metodo. Come spiegava il giornalista Raffaele Oriani dopo le sue dimissioni da il Venerdì di Repubblica, «la grande stampa ha accompagnato il massacro». E la politica ha fornito la cornice. L’Italia intrattiene rapporti economici e cooperazione anche militare con Israele. La distanza tra opinione pubblica e potere è profonda: un sondaggio Ipsos di settembre mostrava che il 58% degli italiani considera l’offensiva israeliana «una catastrofe umanitaria che una democrazia non può causare».

Il valore diseguale della vita

La disparità narrativa fra “ostaggi” e “prigionieri” è la stessa che attraversa tutto il racconto di Gaza. Dei 20.000 bambini palestinesi uccisi in ventitré mesi, non conosciamo i nomi. Degli israeliani sì, uno per uno. Come ricordava Francesca Albanese, Relatrice speciale Onu, «la disumanizzazione è il preludio dell’impunità». E in Italia quell’impunità passa per la grammatica.

Quando 20 israeliani sono “ostaggi” e 1.900 palestinesi “detenuti”, quando 67.000 morti vengono riassunti in un titolo passivo, quando le vittime di una parte hanno biografie e le altre restano numeri, si è già scelto da che parte stare. Il linguaggio non descrive la realtà: la costruisce. E oggi la realtà costruita dai media italiani è un mondo in cui l’umanità ha un passaporto.