Otto marzo, le mimose non bastano. Decimati i fondi per il sociale, il taglio del Governo vale 211 milioni

Mimose senza senso domani otto marzo per la Festa della donna. Dietro fiumi di ipocrisia lo Stato taglia i fondi per i Centri antiviolenza e per il sociale

Siamo alle solite. Con l’avvicinarsi della festa delle donne (domani, otto marzo) non si può far altro che prendere atto che, ahinoi, c’è poco da festeggiare. Perché anche se, a onor del vero, come ci dicono dalla associazioni che si occupano di violenza di genere, nell’ultimo periodo c’è stata una forte accelerazione da parte del dipartimento delle Pari Opportunità, è anche vero che  la mannaia che si abbatterà quest’anno sui fondi per le Politiche Sociali non può passare inosservata. Parliamo di quei soldi che servono a finanziare, tra le altre cose, asili nido, assistenza domiciliare, il sostegno alle famiglie più povere e, appunto, anche i centri antiviolenza che accolgono tutte quelle donne vittime di abusi e che mirano, soprattutto, ad evitare che questi stessi abusi accadano.

Ma facciamo un passo indietro. La pesante ammissione del Governo risale a giovedì scorso, per il tramite del Sottosegretario al Lavoro, Luigi Bobba, che nel rispondere a un atto parlamentare (presentato peraltro da una deputata dem, Donata Lenzi) ha confermato che il fondo per le politiche sociali, appunto, ha subito un taglio indecoroso di 211 milioni, passando dai 311,58 milioni stanziati nel 2016 ai 99 di quest’anno. Senza dimenticare, per inciso, dell’altro clamoroso taglio: quello per i disabili, passato da 500 a 450 milioni di euro. La ragione dei tagli è a dir poco folle. Nella sua risposta, infatti, Bobba ha detto chiaramente che “il Ministero del lavoro e delle politiche sociali non è stato in alcun modo coinvolto nell’istruttoria dell’intesa (e dunque dei tagli, ndr), oggetto di confronto con il solo Ministero dell’economia e delle finanze”. In sintesi? Si taglia per meri motivi ragionieristici. Il sociale può attendere.

Passi in avanti – Ed è un peccato, certo. Perché, come ci dice Luisanna Porcu, del centro antiviolenza Onda Rosa di Nuoro, nonchè consigliera nazionale dell’Associazione D.i.Re. (Donne In Rete), passi in avanti dal dipartimento guidato da Maria Elena Boschi, sono stati fatti. A cominciare dal fatto che “tutte le associazioni sono state chiamate per studiare il nuovo Piano Antiviolenza che dovrà essere approvato a luglio”. Insomma, dopo i ritardi accumulati in passato, c’è l’impegno a cambiare passo: “sono state anche stabilite – continua Luisanna – nuove linee guida affinché ci sia la certezza che i soldi vadano realmente ai centri e che poi vengano concretamente spesi”. Senza dimenticare, ancora, “che rispetto al passato, c’è l’impegno a incrementare la percentuale del fondo destinata ai centri già esistenti, di modo da garantire progettualità”. Ora vedremo se alle parole seguiranno i fatti, come dice la stessa Porcu.

Regioni ferme – Nell’attesa di vedere cosa accadrà, domani le donne scenderanno in piazza, con la certezza, però, che si può e si deve fare di più. Perché il problema non è solo statale, ma anche (e soprattutto) regionale. È qui, infatti, che poi i soldi si bloccano. Inspiegabilmente. Un caso emblematico è quello della Sardegna: “fino ad ora – ci dicono ancora le associazioni – sono arrivati i fondi fino al 31 dicembre 2015”. Niente si sa in relazione ai finanziamenti 2016, né tantomeno a quelli 2017. Con la conseguenza che tanti centri hanno, ovviamente, dovuto anticipare spese senza per ora avere nulla in cambio. E il rischio, manco a dirlo, è che tanti centri sono sul lastrico, col pericolo concreto all’orizzonte di dover chiudere. Ecco a tutte le donne che si rivolgono ai centri con l’acqua alla gola, una mimosa non può proprio bastare.

Tw: @CarmineGazzanni