Perché in Italia ci sono così pochi laureati e le politiche non hanno funzionato

Il divario sul numero di laureati con l’Europa resta enorme: l’analisi di Lorenzo Ruffino mostra un Paese che non investe nei suoi studenti.

Perché in Italia ci sono così pochi laureati e le politiche non hanno funzionato

Nel 2025, mentre il dibattito pubblico si divide su tutto, i numeri sull’istruzione restano muti e implacabili. Lorenzo Ruffino, analista di dati, ha ricordato che tra i giovani italiani di 25–34 anni solo il 32% possiede una laurea, contro il 44% della media europea. Un divario che ci colloca al penultimo posto in Europa, appena sopra la Romania. Ma l’aspetto più grave, scrive Ruffino, è che nessuna regione italiana è oggi vicina all’obiettivo fissato dall’Unione europea per il 2030: il 45% di laureati. Lazio ed Emilia-Romagna sfiorano il 37%, Sicilia e Puglia non raggiungono il 25%. È una geografia della rinuncia, più che del ritardo.

Le radici di un dislivello sociale

Il sistema universitario italiano è cresciuto negli ultimi trent’anni — dal 8% di laureati tra i trentenni nel 1993 al 32% attuale — ma la disuguaglianza resta strutturale. Chi nasce nel Mezzogiorno ha meno probabilità di arrivare alla laurea, e chi proviene da famiglie con basso titolo di studio difficilmente rompe il ciclo. Le politiche di orientamento introdotte dal Pnrr — con moduli obbligatori già nelle scuole superiori — cercano di colmare il divario di partenza, ma senza un reale sostegno economico l’effetto resta modesto.

La laurea continua a essere percepita come un investimento incerto. In un’economia che domanda ancora lavoro a bassa qualifica, il “premio salariale” per i laureati non basta a invertire la tendenza. E il costo della vita universitaria pesa più delle tasse. Le rette, pur calmierate dalla no-tax area introdotta nel 2017 e ampliata nel 2020, restano alte per chi supera i 22mila euro di Isee. Ma il vero ostacolo, osservano gli studi ministeriali, è l’alloggio: 447mila fuorisede per poco più di 54mila posti letto disponibili. Il Pnrr promette 60mila nuovi posti entro il 2026, ma la Corte dei conti ha già segnalato ritardi e appalti bloccati.

Le misure che non bastano

L’aumento delle borse di studio è stato uno dei pochi interventi concreti: nell’anno accademico 2023/24 l’importo per i fuorisede è salito a 6.656 euro, e gli “idonei non beneficiari” si sono ridotti al 2,3%. Un progresso reale, ma insufficiente: l’inflazione degli affitti universitari ha annullato parte del beneficio.

Intanto i tassi di abbandono restano alti. Secondo l’Anvur, il 14,5% degli studenti lascia l’università tra il primo e il secondo anno; dopo tre anni, uno su cinque ha abbandonato. È un’emorragia silenziosa, che non appare nelle statistiche europee ma spiega perché il numero di laureati cresca così lentamente.

Eppure chi si laurea lavora. Il rapporto AlmaLaurea 2025 mostra che il 90% dei laureati triennali trova impiego entro tre anni, e il 93% entro cinque. Il problema, come scrive Ruffino, è che «l’Italia continua a non produrre abbastanza laureati per la sua stessa modernizzazione». È un Paese che si lamenta della bassa produttività, ma non investe abbastanza nell’istruzione che la renderebbe possibile.

Il circolo vizioso del disinteresse

Da anni le riforme inseguono i sintomi senza curare la malattia: si aggiungono corsi professionalizzanti, si riformano gli ITS, si sperimentano nuovi orientamenti, ma non si agisce sulle condizioni materiali che rendono possibile studiare. L’università resta un privilegio di chi può permettersi il tempo e il luogo per farlo.

Ruffino non scrive con toni moralistici, ma la sua fotografia è politica: il deficit di laureati non è un difetto di cultura, è un effetto della disuguaglianza. E senza un investimento stabile in borse, alloggi e didattica di qualità, l’Italia continuerà a formare una classe dirigente piccola e omogenea, incapace di rappresentare la società che pretende di guidare.