Più povero e precario, il lavoro ai tempi di Meloni

Il lavoro ai tempi di Meloni è più povero e precario. Crescono gli occupati, ma c'è poco da esultare: siamo ultimi in Europa per under 34.

Più povero e precario, il lavoro ai tempi di Meloni

“Fannulloni” e “bamboccioni” solo due dei tanti aggettivi utilizzati in modo denigratorio da alcune forze politiche per qualificare i nostri giovani. Quegli stessi esponenti partitici che, sedendo oggi tra i banchi del governo, hanno visto nell’abolizione del reddito di cittadinanza la ragione dell’incremento del dato occupazionale salvo ignorare strumentalmente che si tratta di lavoro povero, precario e senza tutele.

Per quanto riguarda l’occupazione giovanile, non avendo dati da sbandierare ma solo l’imbarazzo da nascondere (l’Italia è fanalino di coda in Europa con i più bassi dati occupazionali per gli under 34) la colpa è di una generazione incapace di fare sacrifici e che piuttosto preferisce accrescere la percentuale dei neet, realtà sulla quale deteniamo invece un triste primato europeo. Pare che il problema sia il mismatch, ovvero il disallineamento della domanda con l’offerta di lavoro, che a sua volta dà vita a problematiche ben note come l’overeducation.

Nel primo caso il paradosso che si crea consiste in una serie di posizioni lavorative che restano vuote con degli occupabili inadatti al ruolo o che semplicemente non hanno incontrato la domanda di lavoro; nel secondo caso abbiamo un eccesso di competenze acquisite con percorsi universitari e di specializzazione per lavori che non solo non le richiedono, ma prevedono salari decisamente più bassi rispetto alla formazione di quella determinata risorsa umana.

La scuola, in questo scenario, acquista un ruolo centrale perché – oltre a lasciar emergere le reali inclinazioni e talenti dei ragazzi – deve garantire un’offerta formativa al passo con le grandi rivoluzioni culturali e occupazionali che caratterizzano il nostro tempo, orientando al lavoro nel virtuoso dialogo con le imprese del territorio. La riforma Valditara, pare che il Liceo del Made in Italy non vada così bene (ma aspettiamo i numeri ufficiali nei prossimi giorni), si prefigge questi obiettivi. Ferma al Senato è la riforma degli istituti tecnici che dovrebbe vedere la luce entro fine febbraio (entrando così in vigore dal prossimo anno) e che prevede il superamento del mismatch della domanda e dell’offerta di lavoro con il rafforzamento della competitività imprenditoriale attraverso l’immissione di giovani già formati all’ interno delle aziende.

Sarebbe tutto fantastico se non venissimo da decenni di fallimentare alternanza scuola-lavoro (ricordiamo casi di cronaca in cui la mancanza di sicurezza dei ragazzi ha condotto a tragici fatti di cronaca) e contratti di apprendistato che nascondevano forme di sfruttamento economico che non preludevano ad alcuna stabilizzazione della posizione lavorativa e a nessuna reale formazione. Se poi analizziamo le già note criticità della continuità tra sistema scolastico e mondo professionale assieme al ddl sull’autonomia differenziata, il disastro annunciato si fa ancora più evidente. Il Disegno di Legge in discussione da ieri (16 gennaio), mira a concedere alle regioni a statuto ordinario, su richiesta, la competenza esclusiva sull’intera materia dell’istruzione rischiando di smantellare un sistema unitario che si poggia su un diritto costituzionale.

La scuola statale e nazionale è l’unica soluzione affinché tutti, lavoratori e studenti, possano godere degli stessi diritti indipendentemente dal territorio di appartenenza. Se con una mano il governo finge di dare risposte ai nostri giovani (riforma Valditara) dall’altra prova a toglierci dei diritti (Ddl Calderoli), in barba alla coesione e all’unità nazionale di cui si sono retoricamente eletti a difensori.