Il 21 marzo 2025 il governo Meloni ha inviato alla Commissione europea la quinta richiesta di modifica del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Cinque revisioni in meno di due anni. Nessun altro paese dell’Unione ha fatto tanto: Belgio, Cipro, Irlanda e Spagna si fermano a quattro; dieci paesi, tra cui Germania e Francia, a tre. Il confronto europeo è impietoso. La narrazione di un’Italia virtuosa e pragmatica inciampa su una realtà fatta di incertezze strutturali, ostacoli amministrativi e criticità decisionali.
A Bruxelles non è arrivata una spiegazione, né a Roma una riga nei verbali ufficiali della cabina di regia o nei comunicati del Consiglio dei ministri. Nulla nemmeno nella sesta relazione sullo stato di attuazione del Pnrr, approvata il 27 marzo. Un documento che, incredibilmente, ignora l’invio della richiesta di revisione avvenuto sei giorni prima. Non solo il Parlamento non ha discusso la proposta: ne è stato formalmente escluso. Un passaggio tanto rilevante è stato affidato a un silenzio istituzionale che disegna un processo sempre meno trasparente.
Pnrr: cinque revisioni, zero confronti
Eppure la legge è chiara. I piani nazionali possono essere modificati solo in presenza di “condizioni oggettive documentabili” che rendano irrealizzabili gli obiettivi originari. Ma il governo si limita a far filtrare, per bocca del ministro Tommaso Foti, l’ipotesi di dirottare 14 miliardi di euro verso incentivi per la competitività del sistema produttivo. Lo ha detto in Aula il 23 aprile, senza mai menzionare la revisione in corso. Né il giorno 13, quando aveva risposto a un’interrogazione sulla riallocazione delle risorse.
Nel frattempo, la piattaforma “Italia Domani” ha aggiornato i dati di monitoraggio. Un passo avanti necessario ma tardivo, che Openpolis sollecitava da mesi. La trasparenza non si misura con qualche riga di codice aperto o un dataset aggiornato. Soprattutto se nel frattempo si cambia la traiettoria del principale programma pubblico del dopoguerra senza condividerne le ragioni.
Una riscrittura costante, fuori scena
Il percorso delle modifiche è diventato sempre più oscuro. La prima revisione – luglio 2023 – ha riguardato dieci scadenze tecniche. La seconda, inviata nell’agosto dello stesso anno, è stata l’unica sistematica, discussa in Parlamento e articolata su molte misure. Poi, a marzo 2024, il governo ha presentato una terza richiesta per modificare 24 interventi. A ottobre è arrivata una quarta revisione, definita “tecnica”, senza dettagli pubblici. Infine, la quinta del marzo 2025: la più opaca, la più preoccupante.
La revisione di marzo 2024, almeno, fu citata da Isabella De Monte in Aula ed emersa nella relazione della Corte dei conti. Quella di ottobre è menzionata di sfuggita nella sesta relazione sul Pnrr. Ma la quinta? Ufficialmente non esiste. Non se ne trova traccia nei documenti parlamentari, nei resoconti delle sedute, nei siti del governo.
A questo si aggiunge un sospetto: i 14 miliardi di fondi non spesi potrebbero essere usati per misure slegate dal cuore del Pnrr. Il ministro ha escluso che vadano alla difesa, ma non ha fornito criteri chiari sulla nuova destinazione. Intanto, il piano viene continuamente riadattato, modellato su priorità contingenti, svuotato del suo impianto strategico. Un Pnrr a pezzi, riscritto fuori scena, con una regia che ignora il copione e lo riscrive ogni volta che l’orologio si sposta.
Serve un dibattito parlamentare, serve una spiegazione, serve un’assunzione pubblica di responsabilità. Perché il Pnrr non è un fondo privato del governo, ma un patto nazionale ed europeo. Scritto con risorse comuni, approvato con garanzie politiche e destinato, almeno sulla carta, a riformare l’Italia. Ogni revisione è un segnale. Alla quinta, il segnale è uno solo: non sanno che fare, o non vogliono dircelo.