Polveriera Libia: la morte di Al-Kikli e le sabbie mobili dei nostri accordi con il regime di Tripoli

La morte del leader miliziano Al-Kikli svela la fragilità libica e l’ambiguità degli accordi italiani con chi viola i diritti umani

Polveriera Libia: la morte di Al-Kikli e le sabbie mobili dei nostri accordi con il regime di Tripoli

La sera del 12 maggio, Tripoli è tornata a bruciare. Sparatorie, esplosioni, allarmi, civili in fuga: l’annuncio della morte di Abdul-Ghani al-Kikli, detto Gnewa, ha fatto deflagrare in poche ore la fragile parvenza di ordine nella capitale libica. Il capo della Stability Support Authority (SSA), tra i più potenti signori della guerra in Libia, sarebbe stato ucciso all’interno della caserma della Brigata 444. Il governo non ha chiarito. Le immagini che lo ritraggono a terra, morto, con una pistola accanto, hanno fatto il giro dei social molto prima che le autorità battessero un colpo.

Chi era Gnewa e cosa rappresentava

Gnewa non era solo il capo di una milizia. Era un’istituzione parallela, fondata con decreto statale nel 2021 e rispondente direttamente al Primo ministro Dbeibah. Aveva il controllo del quartiere di Abu Salim a Tripoli, si era allargato a Zawiya e Misurata, incassava fondi pubblici e deteneva uno status istituzionale nonostante una storia carica di crimini documentati da Amnesty International: torture, esecuzioni extragiudiziali, lavoro forzato, abusi sessuali, sparizioni. Il paradosso è proprio qui: lo stato libico, riconosciuto dall’Onu, si è aggrappato per anni a milizie come la sua per garantire ordine. E l’Italia ci ha fatto accordi.

Un viaggio che dice molto

Secondo quanto emerge da fonti diplomatiche riservate, Al-Kikli avrebbe compiuto almeno un viaggio in Italia, avvenuto tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022, in un momento in cui la cooperazione bilaterale tra Roma e Tripoli era particolarmente attiva. Non esistono riscontri pubblici del suo incontro con rappresentanti governativi italiani, ma la sua visita – organizzata attraverso i canali del Consiglio Presidenziale – testimonia come fosse considerato un interlocutore “istituzionale”, nonostante le pesanti accuse internazionali a suo carico. La discrezione con cui il viaggio è stato gestito dimostra quanto fosse stretto, e opaco, il rapporto tra il nostro Paese e i vertici del potere miliziano libico.

Un’escalation che dice molto

La notizia della sua morte ha aperto il vaso di Pandora. Le strade di Tripoli sono diventate immediatamente teatro di scontri tra la SSA e una coalizione di forze rivali, tra cui la Brigata 444 e la Forza Congiunta di Misurata. Il governo ha imposto coprifuoco, chiuso le scuole, sospeso i voli all’aeroporto di Mitiga. I convogli militari in arrivo da Zawiya e Zintan suggeriscono che non si sia trattato di un episodio isolato, ma dell’inizio di una guerra di successione. Non c’è stato bisogno di attendere l’autopsia: il vuoto lasciato da Gnewa si è riempito di violenza.

Una morte che svela i nostri silenzi

Mentre a Tripoli i miliziani combattono per il controllo del territorio, a Roma il silenzio è assordante. Perché l’Italia non può permettersi di guardare altrove. I nostri accordi con la Libia – dal Memorandum del 2017 rinnovato nel 2023 fino all’addestramento della Guardia costiera – si reggono su equilibri che la morte di Al-Kikli fa a pezzi. L’Italia ha scelto da anni di esternalizzare la gestione dei flussi migratori, appaltandola a milizie che intercettano migranti nel Mediterraneo per rinchiuderli in centri inumani. Le prove di complicità con questi abusi non sono un’opinione, ma una lunga lista di rapporti e sentenze.

L’affare libico e le sue crepe

La crisi aperta dalla morte di Gnewa non è solo un problema di sicurezza per la Libia. È una crisi diplomatica per l’Italia. I nostri partner – o quantomeno quelli con cui firmiamo protocolli – si rivelano ancora una volta leader con responsabilità gravi in violazioni dei diritti umani. E mentre le cancellerie europee tacciono, le inchieste internazionali documentano l’interesse strategico dell’Italia nel mantenere aperti i canali energetici e nel chiudere quelli migratori. A ogni costo.

Quale legittimità per gli accordi con chi bombarda civili?

I governi italiani, da destra a sinistra, hanno difeso quegli accordi come necessità. Ma la morte di Al-Kikli espone un’evidenza imbarazzante: a chi li stiamo delegando, quei compiti? A chi paghiamo centri di detenzione e forniamo motovedette? La Stability Support Authority, che controllava parte dei confini e dei porti libici, è stata guidata da un uomo accusato di violenze sistematiche su migranti e civili. Che il sistema libico sia in mano alle milizie è noto. Che noi continuiamo a trattare con esse senza pretendere nulla in cambio, se non respingimenti, è una scelta.

Un errore strategico e morale

L’instabilità libica è strutturale. Ma trattare con attori come Gnewa ha significato alimentare quel caos con denaro, legittimazione e silenzi. Ora che è caduto, l’Italia si trova senza un interlocutore e con un dossier migranti più esplosivo che mai. Continuare a ignorare la natura criminale dei nostri partner in nome dell’emergenza significa legittimare un modello che perpetua violenze. E compromette irrimediabilmente la nostra credibilità.

La morte di Gnewa è l’ennesimo segnale che il tempo delle scorciatoie è finito. Se l’Italia vuole davvero contribuire alla stabilità libica, dovrà iniziare col cambiare approccio: niente più accordi con chi bombarda civili, niente più denaro a milizie accusate di torture, niente più silenzi complici. Perché ogni volta che il caos esplode a Tripoli, ci esplode anche in faccia.