In Italia vivono in povertà assoluta 5,6 milioni di persone, pari al 9,7% della popolazione: oltre 2,2 milioni di famiglie secondo Istat e Caritas. Se si allarga lo sguardo al rischio di povertà o esclusione sociale, la quota tocca circa il 23%, sopra la media Ue. Numeri elevati nonostante il raffreddamento dell’inflazione dopo i picchi 2022-23.
Chi è povero oggi
Lorenzo Ruffino, in un’analisi del 10 settembre, riassume così il profilo della povertà: «Giovani, famiglie numerose, lavoro discontinuo». Le serie Istat lo confermano: tra i nuclei con tre o più figli minori l’incidenza sfiora il 20%, quasi il doppio della media; tra i giovani sotto i 35 anni il rischio di esclusione supera il 30%, mentre scende circa il 15% tra gli over 65. La cittadinanza pesa: nelle famiglie di soli stranieri la povertà assoluta supera il 35% contro circa il 6% delle famiglie composte da soli italiani.
Il lavoro non basta a proteggere. La quota di “working poor” cresce dove sono diffuse ore ridotte e part-time involontari: tra gli operai l’incidenza di povertà è a doppia cifra, mentre tra impiegati resta più bassa. Dal 2013 al 2023 i redditi reali hanno perso potere d’acquisto; di fronte ad affitti e bollette in aumento le famiglie con un solo percettore restano esposte, e anche con due redditi il rischio non scompare nei contesti urbani.
Incide anche la geografia. Nel Mezzogiorno la povertà assoluta è stabilmente sopra il 12%, contro il 7% del Nord e il 6,5% del Centro. Secondo Caritas, oltre metà degli assistiti vive al Sud. In Sicilia si supera il 15%, in Sardegna si sfiora la stessa soglia. Le città pagano un sovraccosto: in area metropolitana un nucleo giovane con un figlio ha una soglia di povertà attorno a 1.765 euro mensili; lo stesso nucleo in un piccolo comune del Sud scende vicino a 1.146 euro. L’abitazione è il moltiplicatore del disagio: canoni e utenze assorbono quote crescenti del reddito disponibile, soprattutto nei capoluoghi.
Le incongruenze della narrazione
Il governo ha sostituito il Reddito di cittadinanza con l’Assegno di inclusione (AdI) e il Supporto per la formazione e il lavoro (SFL), rivendicando una svolta. I dati amministrativi ridimensionano la promessa. Nel primo semestre 2025 i nuclei AdI attivi sono circa 660 mila, con un importo medio vicino ai 694 euro; i pagamenti mensili SFL si aggirano sui 72 mila, per 350 euro. La platea effettivamente raggiunta è inferiore alla metà dei poveri assoluti: la copertura è selettiva per disegno, perché l’AdI lega l’accesso a requisiti familiari stringenti e lo SFL richiede percorsi formativi e convocazioni non sempre disponibili nei territori.
Il divario tra comunicazione e statistiche emerge anche nella retorica per cui «il lavoro basta». Le serie Istat mostrano che tra le famiglie con un solo occupato l’incidenza della povertà resta a due cifre; con due percettori si riduce ma non scompare, specie nei capoluoghi dove canoni e servizi essenziali erodono i bilanci. Il carovita ha colpito di più i quintili bassi: resta regressivo.
Ruffino indica il perimetro delle priorità: «nuclei giovani e numerosi, affitti, servizi per l’infanzia, carriere intermittenti». È lo stesso tracciato che emerge dai rapporti sociali: senza un capitolo strutturale sull’abitazione, senza strumenti che stabilizzino le ore e riducano la discontinuità, i trasferimenti monetari faticano a portare stabilmente le famiglie sopra soglia. Un ultimo dato riguarda la persistenza. Le indagini longitudinali mostrano che meno di un terzo di chi entra in povertà ne esce nell’anno successivo; la permanenza pluriennale cresce dove i servizi territoriali sono deboli. Finché lo scarto tra propaganda e indicatori rimane questo, saranno numeri e soglie — non gli slogan — a raccontare l’Italia reale.