Quel che serve alla Fiat

di Gaetano Pedullà

Il legame tra la Fiat e l’Italia non era più lo stesso da anni. Mercato delle autovetture a picco, rete dei concessionari in ginocchio, relazioni industriali ai minimi… il gruppo da tempo non chiedeva nemmeno quegli incentivi per la rottamazione con cui aveva retto agli anni peggiori. Sia chiaro: Fiat è stata il prototipo di un mondo industriale che ha preso a mani basse dallo Stato. Talvolta con reciproco giovamento, come accadde negli anni cinquanta, quando il Paese costruì in tempi oggi impensabili quelle infrastrutture (strade e autostrade) senza le quali sarebbe stato difficile motorizzare gli italiani. Non a caso per l’Avvocato Agnelli quel che andava bene alla Fiat andava bene all’Italia. A conti fatti però il Lingotto ha avuto vantaggi ineguagliabili. Milioni di ore di cassa integrazione, contributi miliardari per aprire gli stabilimenti, altri contributi miliardari per mantenere in vita gli stessi impianti e poi magari ancora contributi miliardari per chiuderli. La società che sposta il suo quartier generale da Torino a Londra e Amsterdam (ma anche a Detroit e Wall Street) è dunque una buona notizia per l’Italia? No, non lo è. Con Fiat perdiamo il campione nazionale, nel bene e nel male, della metalmeccanica. Per un Paese che ha già perso la chimica, la grande distribuzione, l’informatica e l’elettronica, proseguire con questa desertificazione industriale significa accettare un ruolo sempre più marginale nel contesto economico globale. Perciò stupiva il premier Letta che ieri a Bruxelles parlava di un’Italia dove l’emergenza è finita. Tra multinazionali che continuano a fare shopping portando via il meglio del Belpaese, i nostri gruppi che delocalizzano all’estero e adesso persino la prima azienda privata nazionale che va via, se l’emergenza è davvero finita vuol dire che il paziente è morto o al massimo gli è rimasto poco in cui sperare.