Quella burla di Beppe Grillo chiamata Quirinarie

di Vittorio Pezzuto

Da un lato il servilismo del salariato prono a interessi opachi, l’approssimazione della notizia, il conformismo beota. Dall’altro la trasparenza dell’ardore anticasta, l’approfondimento consapevole, l’indipendenza di giudizio. Nel vangelo manicheo propagandato online dai seguaci pentastellati i giornalisti – ça va sans dire – appartengono alla prima categoria. Senza eccezioni. E quindi vanno svillaneggiati come cortigiani del potere, branco molesto agitante microfoni e taccuini, epigoni fastidiosi di un ceto improduttivo che si nutre di ignoranza, culturalmente non attrezzato a comprendere la rivoluzionaria categoria di pensiero del Movimento 5 Stelle.
Ricchissimi di certezze lapidarie ma piuttosto squattrinati in quanto a senso dell’umorismo, i parlamentari eterodiretti dal comico Grillo ti squadrano ogni volta con diffidenza e intanto si ripassano mentalmente il decalogo interno al gruppo per soppesare i rischi di una stretta di mano, di un connivente cenno di saluto con il nemico della carta stampata. I loro delegati alla comunicazione sembrano invece agenti dei Servizi: irrintracciabili perché sempre fuori stanza, ignoti alle stesse segretarie dei gruppi parlamentari oppure con il cellulare squillante ogni volta a vanvera (come quello di Claudio Messora, di cui siamo entrati in possesso grazie a complicità carbonare). In queste prime settimane di legislatura chi ha osato criticare il Movimento o quantomeno tenere dritta la schiena leggendo il blog del Capo è stato di volta in volta insolentito con ceffoni verbali che tradiscono soprattutto l’insicurezza di questi debuttanti al Gran ballo della politica. Esercitatevi in una sommaria ricerca sul loro adorato web, scoprirete i grani di un rosario malmostoso: «Virgolettate il nulla e costruite verità manipolate», «Siete spalamerde con il manganello», «Mi state sul cazzo, con voi non parlo».
Chi voglia verificare le notizie che ci elargiscono con supponenza è così costretto a imboccare un labirinto angusto e poco illuminato, che immancabilmente porta il cronista troppo curioso ad andare a sbattere contro muri impenetrabili.

Trasparenza de che?
Per dire, delle Quirinarie gestite dalla ditta Grillo&Casaleggio hanno scritto tutti i quotidiani, hanno dato ampio risalto tutti i Tg. Affetti dalla sindrome di Stoccolma (quella che spinge i sequestrati ad amare i propri aguzzini) tutti hanno compitato ubbidienti la graduatoria ufficiale dei candidati al Colle più graditi all’esigentissimo palato degli iscritti al Movimento. Peccato che a distanza di giorni non si possa ancora disporre di alcuni dati fondamentali: il numero finale dei votanti, la percentuale delle preferenze accordate e il numero assoluto dei voti espressi per ciascun candidato. Curioso, no? Ancora ieri il comico genovese ci spiegava come Stefano Rodotà sarebbe plebiscitato ovunque nel Paese, tacendo però del consenso effettivo raccolto tra le stesse fila dei suoi seguaci. Con quale distacco si è classificato terzo dietro a Milena Gabanelli e Gino Strada? L’hanno votato più o meno di un centinaio di internauti? Non lo sapremo mai. E’ la (loro) trasparenza, bellezza. Oppure si tratta di una grande burla concepita a danno di noi giornalisti zoticoni. Altrimenti perché mai lo stesso Grillo sempre ieri urlava «Non voteremo mai Prodi!», dimenticandosi che il padre fondatore dell’Ulivo era già stato votato dai suoi, piazzandosi all’ottavo  posto nella hit parade ufficiale delle Quirinarie?