L’ultimo rapporto “The State of Food and Agriculture 2025” della FAO non concede scuse: la degradazione del suolo non è una calamità, è una scelta. Quasi 1,7 miliardi di persone vivono su terre dove il degrado riduce i raccolti; nei sistemi ad alta resa la risposta è stata aumentare fertilizzanti, irrigazione e meccanizzazione.
Funziona nel breve, ma scava il capitale naturale: cala il carbonio organico, cresce l’erosione, si abbandonano campi. Il risultato è un debito che si paga in sicurezza alimentare e spesa pubblica. La Fao avverte: l’effetto “maschera” degli input non elimina il danno, lo rinvia. E quando arriva il conto, non c’è più cuscinetto.
Il Paese che lascia andare la terra
L’Italia è un laboratorio della contraddizione. La retorica della “sovranità alimentare” convive con capannoni e asfalto. Nel 2024 il saldo delle superfici perse è pesante e riguarda per tre quarti terreni agricoli. Dove le rese sono più alte, come in Pianura Padana, la Fao indica i debiti maggiori: l’intensificazione maschera il degrado ma lo aggrava.
Ogni ettaro impermeabilizzato sottrae spugna idrica, alza il rischio a valle, cancella biodiversità utile alle colture. La contabilità della resa premia l’anno e dimentica il decennio. La politica, intanto, continua a rinviare una legge quadro capace di fermare la trasformazione irreversibile e di definire obiettivi, standard, responsabilità.
Servirebbero tre scelte verificabili. Primo: una legge quadro che fissi limiti alla trasformazione, standard di qualità del suolo e priorità d’uso, mettendo in fila interessi oggi dominanti per inerzia. Secondo: un piano pluriennale per ripristinare il carbonio organico con obiettivi misurabili, controlli e premi legati a risultati, non a ettari. Terzo: criteri stringenti per localizzare rinnovabili, logistica e nuovi insediamenti fuori dalle aree agricole di pregio, con compensazioni obbligatorie quando si consuma terra. È la traiettoria che la Fao riassume: evitare, ridurre, invertire. Tradotto: smettere di trattare il suolo come un fondo infinito e iniziare a curarlo come infrastruttura nazionale.
I ritardi dell’Italia
Francesco Lollobrigida promette “un’agricoltura sostenibile e moderna”. Eppure l’Italia è ancora senza una disciplina organica del suolo; i disegni di legge si spengono in Commissione, gli atti attuativi si perdono. L’agrivoltaico “senza consumo di suolo” resiste nei comunicati, ma i testi continuano ad aprire varchi sui campi produttivi. La promessa di premiare chi rispetta le regole non diventa un sistema di condizionalità ambientali che allinei reddito e tutela. Manca un cronoprogramma pubblico, mancano obiettivi territoriali, manca la ricomposizione tra politiche agricole, energetiche e industriali. La “sovranità” resta parola.
L’assenza di politica è già politica. Senza un target credibile, le Regioni competono al ribasso: varianti, eccezioni, scorciatoie. Ogni deroga è un pezzo di Paese consegnato a rendite che durano più di una legislatura. Il rapporto Fao ricorda che nei sistemi ad alta intensità l’effetto tampone degli input nasconde il danno finché crolla. Si misurano quintali, non la struttura del terreno che li rende possibili. Poi arrivano frane, grandinate, siccità; e i soldi pubblici pagano i sintomi, non la cura. È l’economia della toppa: costosa, inefficiente, miope.
Eppure la cura esiste ed è misurabile. Rotazioni vere invece di monocolture, lavorazioni ridotte per trattenere acqua e carbonio, siepi e fossi come infrastrutture verdi, irrigazione di precisione, pagamenti legati a risultati di ripristino e minore erosione, non a rendiconti formali. Ripristinare anche una quota del degrado restituisce produttività e resilienza. Costa meno del disastro.
Nel 2025 la Fao suona la sveglia. L’Italia risponde con promesse e rinvii. La “sovranità” evocata in conferenza stampa si misura qui, nella concretezza di ogni ettaro salvato. Finché il ministero resterà spettatore, il Paese resterà senza difesa. E la terra — la nostra — continuerà a morire in silenzio.