Reddito di cittadinanza. Il flop delle politiche attive è colpa delle Regioni

Dal rafforzamento dei Centri per l’impiego passano la riuscita della fase 2 del Reddito di cittadinanza e le riforme del mercato del lavoro.

Reddito di cittadinanza. Il flop delle politiche attive è colpa delle Regioni

Non passa giorno che i vari Meloni, Salvini e Tajani non si scaglino contro il Reddito di cittadinanza, una misura di civiltà voluta dal Movimento Cinque Stelle a sostegno dei soggetti più fragili, privi di entrate a fine mese, e di tutti quei lavoratori poveri che non riescono a mettere assieme un salario dignitoso.

Gli attacchi strumentali al Reddito di cittadinanza si basano su diverse fake news

Gli attacchi strumentali si basano su diverse fake news. Dall’esistenza di una correlazione tra posti vacanti e sussidio al fallimento dello strumento sul fronte delle politiche attive. Se, però, il Reddito di cittadinanza – sebbene solo un terzo dei suoi percettori sia occupabile – arranca sul fronte dell’inserimento nel mercato del lavoro di chi lo riceve la colpa non è del M5S che ha studiato questa misura di civiltà, né dei navigator bensì dei Governatori che rispondono proprio ai vari Meloni, Salvini e Tajani. Se i Centri per l’Impiego infatti non funzionano è perché le Regioni, a guida centrodestra o Pd, non hanno proceduto con le assunzioni di personale a cui erano invece tenuti.

Ieri, alla Camera, rispondendo a un’interrogazione del M5S circa lo stato di avanzamento del Piano di potenziamento dei Centri per l’impiego, previsto dalla legge istitutiva del Reddito di cittadinanza, il sottosegretario Ivan Scalfarotto ha fornito dati – che denuncia il deputato pentastellato Davide Aiello – “destano stupore”.

Il sottosegretario ha spiegato che, al 18 maggio scorso, le Regioni avevano assunto solo 3.440 degli 11.600 nuovi operatori previsti. In pratica, circa un quarto del piano assunzionale complessivo che le stesse Regioni avrebbero dovuto concludere entro il 2021. “È indubbio come la pandemia abbia rappresentato un ostacolo – argomenta Aiello – ma se due Regioni non hanno ancora effettuato alcun innesto vuol dire che c’è un problema profondo che il Governo, attraverso i ministeri competenti, deve affrontare e risolvere quanto prima”.

Dal rafforzamento dei Centri per l’impiego, infatti, passa non solo la riuscita della ‘fase 2’ del Reddito ma anche la messa a terra delle riforme del mercato del lavoro previste dal Pnrr. Dunque se il Reddito di cittadinanza sconta un deficit sul fronte delle politiche attive la colpa non è di quei cattivoni che lo hanno introdotto e studiato ma di tutte quelle Regioni che continuano a boicottarlo.

E una di queste che non ha proceduto a nessun assunzione è la Sicilia guidata da Nello Musumeci, con buona pace di Giorgia Meloni. Proprio in queste ore è scoppiata la polemica per il flop al concorso per laureati alla Regione siciliana. Il bando per il personale dei Centri per l’impiego ha visto un’adesione di quasi 60 mila candidati e soltanto 200 idonei su 537 posti disponibili.

“La preselezione per titoli decisa dalla Regione ha chiuso le porte a tanti giovani qualificati. Sarebbe stato opportuno – ha spiegato Roberta Alaimo, deputata M5S – far sostenere la prova scritta a tutti i candidati e solo dopo calcolare i punteggi per le graduatorie”.

L’introduzione del Rdc si poneva come obiettivo quello di rivoluzionare anche i Centri per l’impiego

A voler fare un po’ di chiarezza va poi detto che la riforma che in Italia ha introdotto il Reddito di cittadinanza si poneva come obiettivo quello di rivoluzionare anche i Centri per l’impiego. Che altro non sono che gli ex uffici pubblici di collocamento, creati nel 1997, per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Per quasi 20 anni sono stati oggetto di riforme che, però, non hanno centrato l’obiettivo: aiutare le persone a trovare un’occupazione.

Ci hanno provato tutti i governi, dal 1997 in poi, ma senza successo: demandando prima le competenze in materia di gestione dei CPI alle Regioni, poi aprendo alla concorrenza con le Agenzie interinali, in ultimo creando un nuovo ente: l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal). Ma nessuno ha investito né su infrastrutture né sul personale. E questo principalmente perché l’Italia ha sempre devoluto all’anno appena lo 0,05% del Prodotto interno lordo ai servizi per il lavoro, contro lo 0,36 della Germania o lo 0,25% della Francia.

Quando nel 2018 il M5S è arrivato al Governo, i CPI contavano su appena 8 mila dipendenti in 552 uffici di tutta Italia. Numeri lontani da quelli della Germania (che ne contava 100 mila) o della Francia (54 mila). Così, prima del Pnrr che ha stanziato a tal fine 5 miliardi, il M5S era intervenuto, stanziando un miliardo per infrastrutture e assunzioni, e arrivare entro il 2021, a circa 20 mila dipendenti, demandando alle Regioni il compito di avviare le selezioni pubbliche. Alle Regioni, appunto.