Luca Zaia ha scelto il Corriere della Sera per ribadire che la sua lista civica si presenterà alle prossime regionali venete. “La lista col mio nome porta voti al centrodestra” ha detto il governatore uscente, respingendo l’accusa di narcisismo e rivendicando una formula già sperimentata in passato. A bloccarlo non è il consenso – ancora altissimo – ma il tetto al terzo mandato, difeso da Giorgia Meloni anche a costo di un contenzioso costituzionale. Il risultato è un braccio di ferro che ormai ha travalicato i confini regionali, diventando un test sulla leadership nella coalizione.
Il precedente e il calcolo dei seggi
Nel 2020 la Lista Zaia ottenne un consenso superiore a quello della Lega ufficiale, attestandosi su un 44,6% che spinse la coalizione al 76,8%. Numeri che oggi il presidente leghista brandisce come prova della sua capacità di “vincere bene”, condizione che – secondo la lettura della legge elettorale veneta – aumenterebbe i seggi della maggioranza. È questo il messaggio implicito a Fratelli d’Italia: senza il traino personale di Zaia, il rischio è una vittoria meno larga e una maggioranza più fragile. Una tesi che Meloni respinge, temendo di veder certificata la supremazia del “modello Zaia” sul marchio FdI in una regione dove il suo partito alle europee 2024 è arrivato primo.
Strategie e diffidenze
Il governatore lega la lista a tre obiettivi: contenere l’astensionismo di una tornata fissata a fine novembre, garantire una maggioranza solida e rivendicare un “mandato corale” per le sfide dell’Autonomia differenziata. Meloni punta invece a un “pacchetto” di intese che riequilibri le presidenze nel Nord, concedendo il Veneto alla Lega ma senza lista personale. Antonio Tajani, dopo aver definito l’idea ”una confusione per gli elettori”, ha aperto sulla candidatura leghista ma non sul brand personale. All’interno della Lega le posizioni non sono univoche: l’assessore Roberto Marcato teme che la lista svuoti il partito, mentre il segretario veneto Alberto Stefani la sostiene come parte di un’architettura a tre gambe. La finestra legale per il voto si chiude il 23 novembre: il tempo diventa un’arma nelle mani di chi punta a logorare l’avversario.
Un logoramento calcolato
Ogni settimana di attesa riduce lo spazio per un compromesso e alimenta la pressione su Fratelli d’Italia. Salvini, dopo iniziali cautele, ha rilanciato definendo la lista ”un valore aggiunto” e portandola al tavolo con Meloni e Tajani. La mossa serve a ribadire che il Veneto resta “fortino” leghista e a rafforzare la sua posizione in un partito che nel 2024, in regione, era sceso al 14%. Per la premier, cedere significherebbe rinunciare a intestarsi la vittoria e rischiare di trasformare le regionali venete in un plebiscito pro-Zaia. Per Salvini, rinunciare vorrebbe dire ammettere che la Lega non può vincere senza il suo governatore più popolare, un segnale pericoloso anche per la sua leadership interna.
Il rischio di frattura
Dietro il duello c’è una questione più ampia: chi controlla il Nord e con quale modello politico. Zaia incarna il pragmatismo amministrativo e il radicamento territoriale della “Lega Nord” delle origini; Meloni il centralismo di un partito nazionale in espansione; Salvini è costretto a mediare, consapevole che una rottura in Veneto potrebbe avere ricadute sulla stabilità del governo e sulla tenuta dell’intera coalizione. La “Lista Zaia” è quindi più di un simbolo elettorale: è una leva per ridefinire rapporti di forza, un banco di prova che mette in gioco seggi, equilibri e il destino dell’Autonomia differenziata. In autunno, nel voto veneto, il centrodestra misurerà non solo la sua capacità di vincere, ma anche la sua tenuta come alleanza di governo.