Il punto è misurabile. Nei palchi di massima risonanza istituzionale tra dicembre 2024 e agosto 2025 – vertici Ue, Monaco, Parlamento, conferenze stampa “difesa”, lettere ai leader – il 62–70% degli interventi di Ursula von der Leyen è centrato su sicurezza, industria militare e Ucraina. Su lavoro, salari, povertà e ambiente restano passaggi episodici, senza un pacchetto paragonabile per scala e densità.
Il 18 febbraio 2025 alla Munich Security Conference la presidente fissa il frame: «al centro di tutto c’è la difesa e la sicurezza dell’Ucraina e dell’Europa». Il 4 marzo, a Bruxelles, la conferenza sul “defence package” porta l’espressione-chiave: «siamo in un’era di riarmo», con il lancio di Readiness 2030/ReArm Europe; l’11 marzo in plenaria a Strasburgo parla di «surge nella difesa europea».
Tra il 28 agosto e il 1° settembre 2025 rivendica piani «abbastanza precisi» per un dispiegamento multinazionale di truppe in Ucraina come garanzia post-conflitto: parole che confermano la centralità militare del mandato.
I soldi e le regole: debito e deroghe per le armi
Lo squilibrio non è solo retorico, è materiale. Readiness 2030 mette sul tavolo una capacità di mobilitazione «fino a 800 miliardi» tra flessibilità del Patto, prestiti comuni e capitali privati; lo strumento SAFE abilita fino a 150 miliardi di prestiti per acquisti congiunti; EDIP vale 1,5 miliardi in grant entro il 2027; il Fondo europeo per la difesa nel 2025 alloca 1,065 miliardi per la R&S collaborativa.
La Commissione, tra febbraio e marzo, propone di allentare temporaneamente le regole di bilancio per accomodare l’aumento delle spese militari (la “clausola di fuga”), aprendo uno spazio fiscale dedicato alla difesa che nei fatti non ha equivalenti per welfare o clima. È il segno politico: per armare l’Europa si piegano regole che sul sociale restano inflessibili.
Nel frattempo si stabilizza l’architettura industriale: la strategia EDIS e il nuovo commissario alla Difesa spingono verso un vero mercato unico degli armamenti, con obiettivi su acquisti congiunti e “made in Ue” e con la retorica della «economia di guerra» evocata dal responsabile del Mercato interno. Un ecosistema che integra produzione, procurement e finanza, con regia della Commissione.
Il resto dell’agenda: sociale e clima in retromarcia
Sul lavoro e sui salari si registrano richiami a produttività, competenze e dialogo sociale (Tripartite Social Summit), ma senza una nuova architettura di intervento: a Davos 2025 la presidente insiste su competitività e “piano comune per decarbonizzazione e competitività”, senza cifre paragonabili alle risorse evocate per la difesa.
Sul clima la bussola slitta verso il “Clean Industrial Deal”. Reti indipendenti segnalano il rischio di un annacquamento della dimensione verde nel reset economico, con tagli o riassegnazioni ai programmi ambientali del MFF e a LIFE; sul Fondo per una transizione giusta (19,3 miliardi 2021–2027) pesa l’ipotesi di fusione in contenitori più ampi che ne diluirebbero la missione. Allarmi che fotografano la priorità ridotta, mentre l’asse militare cresce.
Anche l’allargamento e la politica industriale vengono assorbiti nel lessico della sicurezza: autonomia strategica, supply chain critiche, «deterrenza attraverso il diniego». È la cornice che, occupando il centro, spinge ai margini povertà, salari, casa, servizi.
La sproporzione è nei fatti. Nei nove mesi osservati, tre elementi oggettivi si sommano: frequenza dei discorsi-chiave sulla difesa; massa finanziaria e ingegneria normativa messe a disposizione del settore (clausole di flessibilità, prestiti comuni, programmi dedicati); lessico e simboli – «riarmo», «surge», «readiness», «truppe» – che occupano lo spazio politico e mediatico. Il resto c’è, ma non muove l’asticella.
Più difesa a scapito del sociale
La controprova sta nei confronti: mentre si costruisce una potenza di fuoco potenziale da centinaia di miliardi, gli strumenti sociali muovono decine di miliardi in sette anni e, in alcuni casi, arretrano. Per la povertà infantile non si vedono impegni strutturali paragonabili; per l’abitazione si crea un portafoglio, non un “Housing Action for Europe” con debito comune e deroghe. Il messaggio implicito è chiaro: le emergenze sociali diventano gestione ordinaria, la difesa è la priorità che consente di piegare regole e bilanci.
In questo quadro, la presidente rivendica «piani abbastanza precisi» perfino per opzioni sul terreno ucraino. È una scelta politica, non un automatismo tecnico: l’Unione mostra di saper mobilitare risorse straordinarie quando definisce un’urgenza esistenziale. La domanda, per i cittadini europei, resta in sospeso: perché questa urgenza non vale per i salari stagnanti, la povertà che cresce, l’aria che respiriamo.