Emmanuel Macron ha scelto la tv israeliana Channel 12 per spiegare la mossa che segnerà i prossimi mesi di diplomazia europea: la Francia è pronta a riconoscere uno Stato di Palestina all’Onu. «Le stragi di civili stanno distruggendo l’immagine e la credibilità di Israele», ha detto il presidente, chiarendo che non si tratta di un premio a Hamas, che «vuole uno Stato islamista e distruggere Israele». Per Macron, la prospettiva dei due Stati resta «il modo migliore per isolarlo». Un messaggio diretto a Benjamin Netanyahu, con cui pure ha detto di voler continuare a lavorare.
A Gerusalemme la reazione non si è fatta attendere: tra le opzioni allo studio ci sono la chiusura del consolato francese nella Città Vecchia e un’accelerazione delle annessioni in Cisgiordania. Una ritorsione simbolica e concreta allo stesso tempo, che trasformerebbe lo scontro con Parigi nel banco di prova dei rapporti tra Israele e l’Unione europea.
Stato di Palestina: Berlino al bivio, Madrid spinge
Sul fronte comunitario, la partita si gioca tra tariffe e sanzioni. La Commissione ha proposto il ripristino dei dazi su circa 5,8 miliardi di export israeliano e un pacchetto di misure restrittive mirate contro ministri e coloni responsabili di violenze. Qui la tecnica conta: le tariffe rientrano nella politica commerciale comune e possono passare a maggioranza qualificata, le sanzioni invece richiedono l’unanimità dei Ventisette. La differenza è cruciale.
Il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha annunciato che scioglierà la riserva a ottobre, in vista dell’informale dei leader a Copenaghen. Dopo lo stop alle esportazioni di armi verso Israele deciso in agosto, Berlino è ora osservata speciale. Se decidesse di sostenere le tariffe, l’ago della bilancia in Consiglio si sposterebbe sensibilmente, rompendo l’equilibrio che finora ha permesso a Netanyahu di contare su una sorta di scudo europeo. La formula di Merz è chiara: «siamo con Israele», ma questo «non significa avallare ogni decisione del governo israeliano».
Intanto Madrid porta avanti la linea più dura. Pedro Sánchez chiede coerenza: condannare chi viola il diritto internazionale «a Kyiv come a Gaza». Ha consolidato l’embargo spagnolo sulle armi a Israele, attivo dall’ottobre 2023, e ha imposto divieti di transito per i carichi militari diretti a Tel Aviv. Per il premier socialista, il fronte internazionale coincide anche con il fronte interno: la fermezza contro Israele diventa ossigeno politico, utile a rinsaldare la base di sinistra e a marcare le distanze dall’opposizione.
E Roma?
L’Italia rimane ferma su una linea di prudenza che, nei fatti, si traduce in immobilismo. Il governo Meloni non ha preso posizione sulle ipotesi di tariffe né sulle sanzioni, limitandosi a ribadire il «diritto di Israele a difendersi». Una postura che lascia Palazzo Chigi defilato nel dibattito europeo, mentre gli altri grandi partner muovono pedine decisive. Roma si affida così a un equilibrio fragile: da un lato l’alleanza con Washington e Tel Aviv, dall’altro la necessità di non restare esclusa da eventuali convergenze europee guidate da Parigi, Berlino o Madrid. Una scelta che rischia di tradursi in marginalità politica, proprio mentre la partita mediorientale ridisegna gli equilibri dell’Unione.
La faglia europea
Il quadro che emerge è quello di un’Europa divisa. La Francia punta a dare un segnale politico globale, sfruttando la cornice dell’Assemblea generale dell’Onu. La Spagna spinge per misure dure e immediate, anche a costo di scontentare gli alleati più prudenti. La Germania resta l’attore decisivo, sospesa tra l’alleanza storica con Israele e la crescente pressione interna ed europea per reagire alle violazioni a Gaza.
La faglia tra gli Stati membri è ormai evidente: da una parte chi ritiene che l’Europa debba usare gli strumenti coercitivi di cui dispone, dall’altra chi preferisce affidarsi alla diplomazia classica. La partita delle prossime settimane, a Bruxelles e a New York, dirà se l’Unione riuscirà a compiere un salto politico o resterà prigioniera della sua frattura.