Ricostruire Gaza, tra numeri impossibili e un tempo che si allunga

L’Unctad calcola che per riportare Gaza ai livelli pre-guerra serviranno 70 miliardi di dollari e ben 70 anni

Ricostruire Gaza, tra numeri impossibili e un tempo che si allunga

L’Unctad, l’agenzia delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo, ha messo in fila i dati economici più duri dall’inizio del conflitto. Lo fa in un rapporto che non lascia spazio a interpretazioni accomodanti: la Striscia ha perso l’87 per cento della sua economia tra il 2023 e il 2024, cancellando in pochi mesi ventidue anni di progressi. Il Pil pro capite è crollato a 161 dollari, uno dei livelli più bassi al mondo. La fotografia è brutale, persino per un territorio abituato a convivere con la distruzione. L’Unctad scrive che siamo davanti alla «peggiore crisi mai osservata» e indica una cifra destinata a pesare a lungo: per ricostruire Gaza serviranno almeno 70 miliardi di dollari e settant’anni di lavoro.

Nel rapporto c’è anche una frase che sembra un atto d’accusa: «A Gaza l’uomo ha creato un abisso». Non un disastro naturale, non una calamità imprevedibile, ma il risultato di scelte politiche e militari che hanno demolito infrastrutture, produzione, reti sociali. In meno di due anni si è dissolta una crescita faticosa, ottenuta a colpi di resistenza quotidiana dentro un assedio permanente.

L’economia annientata

Le infrastrutture sono al collasso: acqua, elettricità, ospedali, scuole, rete viaria. Le prime valutazioni dell’Unctad stimano che la capacità produttiva sia stata «decimata». I dati ufficiali parlano di un impoverimento «estremo e multidimensionale» che coinvolge 2,3 milioni di persone. Non è solo un bollettino economico: è la constatazione di un’interruzione totale della vita civile.

Il ritardo nella Conferenza internazionale per la ricostruzione, rinviata perché diversi Stati chiedono garanzie che la distruzione non si ripeta, mostra quanto il terreno sia instabile. Manca un accordo politico minimo, mancano impegni finanziari vincolanti, manca una visione condivisa. Nel frattempo nelle capitali si discute di “business della ricostruzione”, di appalti futuri, di ritorni economici potenziali, mentre nella Striscia non è nemmeno cominciata la fase zero: togliere le macerie dalle strade.

In parallelo continuano le conseguenze dirette della devastazione: il Programma alimentare mondiale segnala che gran parte dei palestinesi può acquistare solo cereali e legumi; in molte aree si cucina bruciando plastica, perché il gas non arriva. Le tendopoli sono state allagate dalle prime tempeste e l’inverno atteso come il più rigido da anni lascia immaginare una crisi umanitaria ancora più profonda. La sanità è al limite: ospedali distrutti o parzialmente funzionanti, personale allo stremo, farmaci insufficienti. L’economia annullata si traduce in una ferita permanente sul corpo della popolazione.

La ricostruzione che non comincia

C’è un dato che racconta il blocco più di ogni altro: milioni di tonnellate di macerie impediscono l’accesso, rallentano gli aiuti, fermano cantieri che non possono aprire. L’Unctad ricorda che senza un’operazione sistematica di rimozione, l’avvio stesso della ricostruzione è impossibile. La stima dei settant’anni non è un artificio retorico: è il calcolo tecnico necessario a riportare servizi essenziali, abitazioni, rete idrica ed elettrica in un’area dove quasi tutto è stato distrutto.

La crisi non riguarda solo Gaza. Il rapporto dedica un capitolo alla Cisgiordania, descritta come in «grave recessione». Le restrizioni ai movimenti, l’espansione degli insediamenti e le violenze hanno ridotto l’attività economica ai minimi storici. Dal 2019 Israele ha trattenuto circa 1,8 miliardi di dollari di entrate fiscali destinate all’Autorità nazionale palestinese: una cifra che pesa come una manovra economica sottratta a un bilancio già fragile. Quei fondi mancanti sono scuole non aperte, salari pubblici non pagati, servizi sociali ridotti.

L’Unctad chiede alla comunità internazionale un sostegno «duraturo e su larga scala», superiore ai classici pacchetti di emergenza. Qui l’emergenza non dura settimane: si misura in generazioni. Senza un impegno immediato e garantito, la previsione dei settant’anni rischia persino di essere ottimista. Quando i riflettori mediatici si spengono, restano questi numeri: un’economia prosciugata, un territorio frantumato, milioni di vite sospese a tempo indeterminato in attesa che qualcuno decida se Gaza debba essere un cantiere di rinascita o una rovina permanente tenuta ai margini del mondo.