Secondo l’ultimo rapporto dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale, tra il 2025 e il 2029 ci sono l’86% di probabilità che il riscaldamento globale superi la soglia critica di 1,5°C per almeno un anno, e il 70% che ciò avvenga in media sull’intero quinquennio. Numeri che fino a pochi anni fa sarebbero stati definiti fantascientifici. Non solo: per la prima volta compare nei modelli una probabilità, seppur modesta (1%), che entro il 2030 si superino i 2°C su base annua. È uno scenario che gli stessi climatologi definiscono “scioccante”.
Intanto, la Commissione Europea ha confermato che l’Ue è “sulla buona strada” per tagliare del 54% le emissioni entro il 2030, grazie all’adeguamento dei Piani nazionali per l’energia e il clima da parte degli Stati membri. L’Italia però fa eccezione: a dispetto dei proclami, ha abbracciato un modello di “ritardo climatico istituzionalizzato” che svuota di significato ogni azione concreta.
Ritardi, tagli e gas: la strategia Meloni
Dal taglio di 15,9 miliardi nel Pnrr – che ha falcidiato proprio i capitoli legati alla transizione verde – alla cancellazione dei fondi per il dissesto idrogeologico e la riforestazione urbana, l’azione climatica del governo Meloni è una sequenza di rinvii e definanziamenti. Emblematico il dimezzamento dei fondi per la prevenzione del dissesto idrogeologico, deciso appena due mesi dopo le devastanti alluvioni in Emilia-Romagna.
Il Piano Mattei, sbandierato come strategia geopolitica, è in realtà un investimento gas-centrico che sottrae risorse al Fondo Italiano per il Clima. A questo si aggiunge la retorica di un nucleare “pulito e sicuro” che, anche se fosse realizzabile, arriverebbe troppo tardi per fermare la catastrofe imminente.
Meloni continua a dire che l’Italia “non è guidata da negazionisti climatici”. Ed è vero: nessuno nega apertamente il riscaldamento globale. Ma il punto non è la negazione, è la dilazione. Il rinvio. Il finto pragmatismo che oppone la tutela dell’ambiente alla competitività industriale, mentre le imprese europee investono in rinnovabili e decarbonizzazione. L’Italia invece retrocede: nel Climate Change Performance Index 2025 è scivolata al 43° posto.
L’involuzione italiana mentre l’Europa accelera
Mentre l’Unione Europea si avvicina alla riduzione del 55% delle emissioni e fissa già l’obiettivo del -40% entro il 2040, Roma si distingue per il suo ostruzionismo negoziale sulle direttive del Green Deal. Il Piano Nazionale di Adattamento, approvato a fine 2023 dopo sei anni di stallo, è privo di fondi e di una tabella di marcia credibile. Un documento “fantasma” che certifica più un obbligo burocratico che un’intenzione strategica.
Nel frattempo, chi denuncia l’inazione del governo viene criminalizzato. La legge contro gli “ecovandali”, con pene fino a cinque anni di carcere per attivisti climatici, serve più a silenziare il dissenso che a proteggere il patrimonio.
Il prezzo dell’inazione
L’Italia è già tra i Paesi europei più colpiti dal cambiamento climatico: oltre 3.000 eventi estremi nel solo 2022 e un rischio crescente secondo l’ultimo Climate Risk Index di Germanwatch. Ma le misure concrete non arrivano. E mentre ogni grado in più si traduce in costi umani, sanitari ed economici, il governo insiste a vendere “futuro” a colpi di promesse tecnologiche e soluzioni irrealizzabili.
In un mondo che si riscalda a ritmi inediti, ogni ritardo si trasforma in danno permanente. Ogni euro sottratto alla prevenzione è un investimento nel disastro. E ogni governo che resta fermo, è un complice.