Roma, Atac sempre più a picco. Si vende pure rotaie e rame. Dismissioni ferme e debito non ristrutturato. L’azienda trasporti è il vero macigno per Marino

di Stefano Sansonetti

Chissà, forse con le tonnellate di vecchie rotaie e di cavi di rame andrà un po’ meglio rispetto a quanto è accaduto sinora con gli immobili. Già, perché a pesare in modo considerevole sul buco sempre più profondo che si è creato nei conti dell’Atac, l’azienda dei trasporti del comune di Roma, è proprio la mancata riuscita del piano di dismissione del  suo “mattone”. E così la società, sul cui biglietto da visita oggi sono riportati in bella evidenza 335 milioni di perdite in due anni e 700 milioni di debiti verso banche e fornitori, è tra le principali cause delle preoccupazioni del sindaco della capitale, Ignazio Marino. Il quale a sua volta sta cercando di salvare i conti del Campidoglio, schiacciati da 800 milioni di debiti. Naturalmente tutte le cifre, entro certi termini, sono collegate tra loro. All’Atac, nel frattempo, si vende tutto ciò che può fare cassa. Un avviso pubblicato nei giorni scorsi, per esempio, mette all’asta 606 tonnellate di rotaie giacenti presso i magazzini della società (che gestisce i trasporti di superficie, le line ferroviarie e le metropolitane). Così come all’asta, con un altro avviso, sono andati 35 mila chili di cavi di rame. Considerata complessivamente, la doppia operazione parte da una base d’asta di circa 250 mila euro. Cifra risibile, se paragonata all’entità delle difficoltà economiche della società. Ma, come dire, tutto può far brodo per racimolare risorse. Per carità, fonti della società fanno sapere che si tratta di una procedura standard che si applica da anni. Quando i materiali in rame e ferro sono usurati, invece di buttarli via, vengono ceduti a chi può essere interessato a un loro riutilizzo. Non c’è dubbio che sia così. Di sicuro è curioso notare come questa iniziativa, per quanto di prassi, si inserisca in una più complessa operazione di dismissioni che finora non ha prodotto i risultati sperati.

 

Mattone amaro
Basta dare un’occhiata alla relazione sulla gestione dell’ultimo bilancio approvato dalla società (2012) per capire che aria tira. Premettendo che l’azienda, oggi guidata da Danilo Broggi, nel corso del precedente esercizio era affidata alle cure di Roberto Diacetti (nominato dall’ex sindaco Gianni Alemanno), nel documento si delineano scenari non proprio incoraggianti. Tra i punti di maggior allarme viene segnalato “lo slittamento dei benefici attesi dalle operazioni di valorizzazione immobiliare, nonché il loro possibile ridimensionamento per effetto dei potenziali rischi di aumento delle superfici non redditizie”. Poco dopo si fa l’esempio degli uffici Atac di via Tuscolana, la cui vendita era prevista nel 2012. Niente da fare, però, vista “l’assenza di offerte”. E pensare che sulle dismissioni immobiliari si puntava moltissimo. Negli anni scorsi era stata addirittura costituita Atac Patrimonio, società deputata proprio alla valorizzazione ed eventuale cessione di un patrimonio immobiliare di circa 500 milioni di euro.

Il debito
Tra le cause del rosso di esercizio, tra l’altro, sempre nella relazione sulla gestione l’Atac indica “il mancato beneficio atteso dall’operazione di rimodulazione del debito, tutto in corso di negoziazione con le banche affidatarie, operazione che ha sempre caratterizzato il piano come strumento complementare alla ricapitalizzazione perfezionata nel luglio del 2011”. Insomma, si è così arrivati ad accumulare 700 milioni di debiti, di cui circa 300 proprio nei confronti degli istituti di credito. Non si può però tacere il fatto che nel meccanismo perverso del “dare-avere”, ancora sulla base del bilancio 2012, Atac vanta 480 milioni di crediti nei confronti del comune di Roma e 447 verso la regione Lazio. Peccato che la capitale, se possibile, se la passi anche peggio. E così i conti zoppicanti dell’uno finiscono per scaricarsi sull’altro. Sul piatto, per uscire da questa spirale, c’è la possobilità di trasferira alla gestione commissariale parte dei debiti. Ma comune e azienda sono davvero con l’acqua alla gola. Con la quasi certezza che a pagarne le conseguenze saranno ancora i cittadini in termini di aumento dell’addizionale comunale -Irpef dall’attuale 0,9 all’1,2%.