Sarà che i minori, dalle nostre parti, servono solo quando diventano clava politica. Sarà che i bambini non votano. Così l’S.O.S. infanzia lanciato dai numeri Unicef suonano come flebile rumore di fondo: oltre 200 milioni di bambini avranno bisogno di assistenza umanitaria nel 2026. È una conta che supera la dimensione statistica e fotografa la cedevolezza morale del nostro presente. Conflitti, carestie, instabilità economiche e crisi climatiche convergono nello stesso punto fragile: l’infanzia. Nel nuovo “Humanitarian Action for Children”, l’agenzia chiede 7,66 miliardi di dollari per raggiungere 73 milioni di minori, dai neonati con malnutrizione severa agli adolescenti che vivono tra fronti armati e servizi essenziali in collasso.
Ogni cifra racchiude un mondo perduto. Nelle parole della direttrice Catherine Russell, i bambini sono travolti da dinamiche che non possono governare e che spostano la loro vita come un oggetto trascinato dalla corrente. Gli attacchi a scuole e ospedali continuano senza tregua, mentre nel 2024 le violazioni gravi contro i minori hanno toccato quota 41.370, un record che misura l’intensità del disordine globale. Ne emerge l’immagine di un’infanzia compressa tra violenze, sfollamenti e assenze istituzionali che allargano il vuoto intorno a intere generazioni.
La fame come linea del fronte
La mappa della malnutrizione è un reticolo che si infittisce. Venti milioni di bambini avranno bisogno di assistenza nutrizionale d’emergenza nel 2026, mentre 8,3 milioni risultano esposti a un rischio immediato di carestia in Sudan, Sud Sudan, Yemen e nei Territori palestinesi. In altri Paesi — dalla Somalia alla Nigeria, dalla Repubblica Democratica del Congo all’Etiopia, passando per Haiti, Mali e Myanmar — altri 12 milioni di bambini si trovano sull’orlo dell’insicurezza alimentare. È una fame che non esplode in un istante: avanza in forme lente e quotidiane, consumando i corpi molto prima che le agenzie internazionali la riconoscano come crisi.
In questo scenario si inserisce un paradosso spietato: mentre i bisogni aumentano, gli investimenti globali arretrano. Nel 2025 i programmi nutrizionali dell’UNICEF hanno subito un deficit del 72 per cento, che ha costretto a ridurre gli obiettivi di intervento da 42 a 27 milioni di donne e bambini. Anche la scuola, che rappresenta l’unico presidio possibile di stabilità nelle emergenze, è colpita da un taglio di 745 milioni di dollari. Risultato: aule chiuse, materiali ridotti, insegnanti senza supporti e una generazione che cresce senza nemmeno lo spazio simbolico dell’apprendimento.
Decisioni impossibili, futuro interrotto
La parte più dura del rapporto riguarda ciò che avviene dietro le quinte degli interventi. L’Unicef racconta squadre che, ogni giorno, devono compiere “decisioni impossibili”: concentrare le scorte su una regione lasciandone scoperta un’altra, sospendere attività fondamentali per garantire almeno le terapie salvavita, ridurre la frequenza delle visite nei campi profughi quando il carburante non basta più. È un lavoro che si fonda sulla sottrazione e sulla rinuncia, in cui ogni scelta operativa lascia scoperto un bambino reale, con un nome che non entrerà in alcun comunicato.
In molte aree l’accesso umanitario è quasi del tutto compromesso. Le squadre restano bloccate per giorni; gli operatori diventano bersagli; le comunità vengono raggiunte solo quando la crisi è già maturata. La diplomazia umanitaria — spiegano dall’Unicef — è ormai un elemento essenziale quanto l’acqua o le forniture mediche, perché senza corridoi sicuri anche il miglior programma di aiuti resta una promessa vuota.
Alla fine, la fotografia è questa: un’umanità minorenne che vive con il fiato corto, in una condizione di precarietà permanente. Russell avverte che senza un impegno straordinario il 2026 sarà l’anno in cui il divario tra risorse e sofferenze si trasformerà in una frattura strutturale. Si legge spesso e quasi dappertutto che un mondo che non riesce a proteggere l’infanzia è un mondo che rinuncia a sé stesso. Ma la frase è vuota, ridondante, senza azione.