Ogni partenza è una scelta, ma anche una spia. È questa la chiave di lettura, una perlomeno tra le altre, del fenomeno migratorio che emerge dal Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes. Che ha certificato il 2024 come anno record per numero di espatri. Una fuga dall’Italia che riguarda soprattutto i giovani. L’emigrazione italiana contemporanea – benché spesso definita con eufemismi come “mobilità internazionale”, “fuga di cervelli”, “nuove generazioni globali” – è in larga parte una risposta strutturale a mancanze sistemiche del Paese, si legge nel Rapporto. I dati raccolti anno dopo anno dalla Fondazione Migrantes non lasciano spazio a interpretazioni semplicistiche: non partono solo gli spiriti avventurosi, ma anche – e soprattutto – coloro che non trovano in Italia spazio per vivere con dignità.
Chi è in fuga dall’Italia lo fa in risposta a un sistema bloccato
Attraverso interviste, contributi narrativi e analisi socio-economiche, il Rapporto costruisce la spinta migratoria come conseguenza di un sistema bloccato, incapace di offrire lavoro stabile, servizi adeguati, riconoscimento di merito, opportunità di crescita e dunque difficoltà a mettere su famiglia. Le partenze diventano così una forma di reazione a un senso diffuso di esclusione, frustrazione e invisibilità. L’altra faccia della medaglia riguarda l’immagine che il Paese costruisce di sé: un’Italia che si percepisce, e viene percepita, come un luogo da cui è inevitabile fuggire.
Applicato al caso italiano, il problema sposta il focus dalla mobilità in sé, alla debolezza delle istituzioni nel riconoscere i giovani come protagonisti attivi dell’innovazione. Non basta trattenerli, né rimpiangerli: serve coinvolgerli nella costruzione di nuove visioni collettive. Che questo non sia un Paese per giovani ce lo dicono innanzitutto i dati sull’occupazione, di cui il governo Meloni si vanta appena può.
La crescita dell’occupazione non riguarda i giovani
Secondo gli ultimi dati Istat a settembre gli occupati sono aumentati (+67mila unità in un mese e +176mila in un anno) e il tasso di occupazione è salito al 62,7%. Ma è salito anche il tasso di disoccupazione (al 6,1%), con quello giovanile che è schizzato al 20,6% (+0,9%). Ovvero l’aumento degli occupati due mesi fa ha riguardato, come nei mesi precedenti peraltro, soprattutto chi ha almeno 50 anni, a fronte della diminuzione nelle altre classi d’età. E questo avviene tanto nel privato quanto nel pubblico.
Tra i lavoratori pubblici la classe di età “modale”, quella cioè più frequente, è quella tra i 55 e i 59 anni con quasi 662mila lavoratori (661.919 – 17,7% sul totale). Il 76,6% ha un’età maggiore o uguale a 40 anni. E’ quanto emerge dall’Osservatorio dell’Inps relativo al 2024 diffuso ieri.
Salari da fame
Quella attuale, tra l’altro, è soprattutto un’occupazione che aumenta per quantità ma non per qualità. Quasi nove punti in meno rispetto al gennaio 2021: le retribuzioni in termini reali, a settembre, risultano – dati Istat – al di sotto dell’8,8% rispetto ai livelli di quattro anni fa. Ma i dati dell’Istat evidenziano anche altri due dati: la dinamica salariale immobile rispetto al mese precedente e il fatto che quasi la metà dei lavoratori non ha un contratto rinnovato.
Secondo gli ultimi dati Inps lo scorso anno si è chiuso con un saldo positivo di 363 mila contratti (8,1 milioni di assunzioni contro 7,7 milioni di cessazioni). Ma quelli a termine hanno rappresentato l’80,4% dei nuovi contratti. Le entrate contributive sono salite del 5,5%, ma “non in misura proporzionale alla crescita occupazionale”. Un’ulteriore conferma che crescono gli occupati ma i salari restano al palo.
Il governo si ostina a dire no al salario minimo
Ma nonostante questi numeri e di fronte al dato evidente che agire sulla leva fiscale, come nella scorsa Manovra ha fatto il governo Meloni con il taglio sul cuneo fiscale e contributivo e come si ostina a fare quest’anno con il taglio dell’Irpef, non abbia prodotto risultati, le destre si ostinano a dire no al salario minimo. Eppure il caso della Germania dovrebbe insegnarci qualcosa. Se le retribuzioni dei tedeschi crescono, nonostante la crisi economica del Paese, il merito è anche del salario minimo, che verrà ulteriormente alzato dal primo gennaio 2026, come deciso dal governo di Berlino. Arriverà a 13,9 euro l’ora, per poi salire ulteriormente a 14,6 euro nel 2027, contro gli attuali 12,82 euro.
Non solo. Ieri dalla Corte di giustizia Ue è arrivato un altro segnale in tale direzione. La Corte ha infatti confermato la validità di gran parte della direttiva relativa ai salari minimi adeguati nell’Unione europea. “Il governo italiano non ha più scuse, smetta di nascondersi dietro artifici burocratici ‘interpretativi’ della direttiva e faccia ciò che va fatto: avvii immediatamente un tavolo con le parti sociali per realizzare finalmente anche in Italia il salario minimo. E’ la prima e più urgente risposta da dare all’aumento del costo della vita, all’impoverimento dei salari e al disagio di milioni di famiglie”, ha detto la Cgil.