Non è un effetto collaterale. È il bersaglio. Lo dice Ehab Abo Khair, portavoce dell’ultima università rimasta in piedi a Gaza, prima che fosse occupata per 70 giorni e poi rasa al suolo dall’esercito israeliano. È il 17 gennaio 2025. Due giorni prima del cessate il fuoco.
La distruzione sistematica delle scuole e delle università palestinesi non è un eccesso: è una dottrina. Secondo le Nazioni Unite, l’80% delle scuole di Gaza è stato distrutto. Tutte le undici università non esistono più. Hanno bruciato anche i libri. E la replica israeliana? Qualche condanna di facciata, la solita inchiesta-fantasma.
Kenneth Roth, ex direttore di Human Rights Watch, ha parlato di violazioni gravi del diritto internazionale umanitario. Perché anche se in quelle aule ci fossero state armi – ipotesi mai dimostrata – la distruzione metodica di interi campus non ha alcuna proporzionalità militare. È una punizione culturale.
Lo chiamano “scolasticidio”, un termine coniato nel 2009 dalla docente Karma Nabulsi per descrivere la cancellazione intenzionale dei sistemi educativi. Myriam Benraad parla di “epistemicidio”: l’assassinio della conoscenza come atto di guerra.
Non si colpiscono solo i muri. Si spezza la possibilità stessa di ricostruire, di ricordare, di esistere come popolo. Cinquemila studenti, novantacinque docenti universitari e duecentosessantuno insegnanti uccisi. Oltre seicentomila studenti senza scuola da oltre un anno e mezzo.
Mentre le bombe cancellano le aule, Trump arresta studenti solidali nelle università americane e taglia fondi. La guerra alla Palestina passa per l’annientamento del pensiero. Serve chiamarlo con il suo nome. Serve farlo ora.