Succede a Bruxelles, in una sala che odora di procedura e sospetto. È qui che il Parlamento europeo ha inaugurato il suo nuovo “gruppo di scrutinio” sui finanziamenti alle Ong, un organismo voluto dall’asse tra popolari, conservatori ed estrema destra. Lo racconta un’inchiesta di Euractiv, in cui si vede la scena: i commissari dell’esecutivo europeo interrogati, le sedie lasciate vuote dai deputati di Verdi e Sinistra, la fuga simbolica dei socialisti e dei liberali dopo nemmeno un minuto di seduta. Un rituale di delegittimazione perfettamente costruito.
Il punto non è contabile. Il punto è politico. Le Ong tornano al centro del mirino perché diventano il terreno su cui la destra europea costruisce la sua offensiva culturale: ridurre lo spazio della società civile, normarla, incasellarla, toglierle voce. Nell’inchiesta si ricorda che tutto nasce da accuse mai provate di presunta attività di lobbying svolta da alcune organizzazioni finanziate con fondi comunitari. Accuse deboli, ma sufficienti a giustificare un apparato d’indagine.
Il nuovo perimetro della solidarietà
A spiegare la posizione della Commissione è il direttore generale per il Clima, Kurt Vandenberghe: «Non c’è alcuna prova di violazioni». Il capo di Dg Ambiente ricorda che in passato alcune Ong avevano indicato nelle loro attività anche iniziative di advocacy rivolte agli eurodeputati, ma precisa che dal 2024 le linee guida sono state modificate per evitare ogni possibile fraintendimento. La Commissione ribadisce che le Ong restano autonome, che nessuno viene finanziato per fare pressione sugli uffici di Bruxelles.
È una difesa istituzionale. Ma sotto la superficie si intravede un’altra dinamica: un’Unione che si sente minacciata da chi ne interpreta criticamente le politiche ambientali, migratorie, sociali. Ed è per questo che le regole cambiano, si restringono, diventano un recinto.
In parallelo, negli ultimi mesi diversi governi europei hanno iniziato a introdurre controlli, registri speciali, obblighi di trasparenza selettivi, fino a misure che trattano le Ong come potenziali agenti stranieri. La stessa retorica che oggi plasma il dibattito europeo: un’associazione che salva vite o difende diritti viene descritta come un soggetto “politico”, quindi da contenere.
Il Mediterraneo come laboratorio
La controprova arriva dal mare. Nel Mediterraneo le Ong che soccorrono migranti continuano a subire fermi amministrativi, procedure accelerate, imposizioni di porti lontani. In diversi episodi documentati da missioni internazionali, le navi umanitarie sono state ostacolate, intimidite, persino colpite durante operazioni di salvataggio.
La Commissione, interrogata più volte, risponde sempre allo stesso modo: la ricerca e il soccorso spettano agli Stati, non all’UE. È una formula neutrale, che però sposta la responsabilità verso i governi nazionali e lascia le Ong intrappolate fra normative divergenti, sospetti politici e zone d’ombra operative.
Il risultato è un cortocircuito: l’Europa che finanzia progetti umanitari è la stessa che restringe lo spazio di chi agisce sul terreno, soprattutto se quell’azione incrina la narrazione sulla gestione dei confini.
Una strategia che parla al futuro
Il quadro che emerge è chiaro: la “guerra alle Ong” non è un episodio sporadico ma una strategia di lungo periodo, inaugurata con il pretesto di controllare l’uso dei fondi e consolidata con il rafforzamento delle famiglie politiche che hanno fatto della diffidenza verso la società civile un tratto identitario.
Nel frattempo, la Commissione prova a mostrarsi rassicurante, ma accetta l’idea – seppure senza proclamarla – che le Ong debbano operare entro un nuovo perimetro, più stretto, più “compatibile”, meno conflittuale. Come se il pluralismo democratico fosse un fastidio, un margine da assottigliare.
E così, mentre a Bruxelles si dibatte sui dettagli procedurali, la politica trova un altro modo per misurare la solidarietà: non in base al numero di vite salvate, ma in base a quanto chi salva resta docile di fronte al potere.