Scudo penale agli uomini delle forze dell’ordine, la storia non comincia oggi. È un filo che ritorna, si interrompe, riparte, cambia nome, si alleggerisce nel linguaggio ma conserva lo stesso obiettivo: intervenire sul momento in cui lo Stato controlla se stesso. Negli ultimi due anni la maggioranza di destra ha cercato più volte di introdurre un filtro sulle indagini riguardanti gli agenti in servizio quando l’uso della forza è contestato. L’idea è sempre la stessa: evitare l’iscrizione immediata nel registro degli indagati, che la legge considera un atto dovuto. Evitare, cioè, che la macchina dell’inchiesta si metta in moto con piena visibilità giudiziaria e pubblica.
La sequenza dei tentativi
Il primo passaggio risale al gennaio 2024, nel pieno della discussione sulla legge sicurezza. In alcune bozze circolava una norma che avrebbe previsto un vaglio preliminare dell’operato dell’agente prima dell’iscrizione nel registro degli indagati. Non arrivò al testo finale: contrasti interni alla maggioranza, timore di aprire un fronte simbolico troppo evidente. Ma la direzione era segnata.
Giugno 2024: un nuovo tentativo, questa volta con un nome più accattivante, “codice blu”. L’idea era di introdurre procedure dedicate per verificare la legittimità dell’uso delle armi da parte degli agenti. Una sorta di corsia investigativa speciale. Anche questa ipotesi si fermò, rallentata dai rilievi tecnici del ministero della Giustizia. L’equilibrio del processo penale, ricordarono i giuristi, vive proprio nella tempestività dell’accertamento, soprattutto quando l’azione contestata è compiuta da chi esercita la forza in nome della legge.
Inizio 2025, terzo tentativo. Il governo lavora al nuovo decreto sicurezza. Riemerge la stessa idea: dare al pubblico ministero la possibilità di valutare se ci siano elementi che facciano presumere una scriminante, prima di procedere all’iscrizione. Questa volta a bloccare l’inserimento è un motivo più politico: evitare tensioni con il Quirinale su una norma percepita come sensibile per l’equilibrio costituzionale dei poteri.
Ora siamo al quarto giro. Fratelli d’Italia deposita una proposta esplicita (prima firma Bignami) per modificare l’articolo 335 del codice di procedura penale. Il testo prevede che, quando l’azione dell’agente «appare riconducibile a una scriminante», il pubblico ministero debba svolgere accertamenti preliminari prima di inserire il suo nome nel registro degli indagati. La maggioranza lo presenta come uno strumento di tutela contro le “indagini inutili” e contro l’“atto dovuto” che spesso si conclude in archiviazione.
Le voci fuori dal governo
Associazioni e giuristi leggono invece la norma in senso opposto. Il richiamo è alla Cedu, che ha più volte condannato l’Italia per indagini tardive, incomplete o non indipendenti nei casi in cui vi sia un sospetto di violenza di Stato: dal G8 di Genova fino ai casi più recenti in carcere e nei reparti mobili. Antigone, Acad e Amnesty insistono sul punto che in Europa gli standard vanno nella direzione della tracciabilità dell’uso della forza, della trasparenza operativa e dei codici identificativi sugli agenti. Filtrare l’avvio delle indagini significa toccare il momento più delicato: le prime ore, quando si raccolgono prove, testimonianze, registrazioni, referti. Se quel passaggio viene diluito, il rischio è che si disperda ciò che rende un’indagine efficace.
I sindacati di polizia sostengono lo sforzo opposto. Parlano di una misura di equilibrio in un contesto in cui l’iscrizione nel registro degli indagati diventa spesso notizia, con conseguenze reputazionali e professionali anche quando il procedimento termina senza colpe. La richiesta è di proteggere chi opera in situazioni di conflitto e rischio, mentre la politica ne fa simbolo identitario di schieramento.
La domanda però resta sempre la stessa: chi controlla lo Stato quando lo Stato usa la forza? È su questo terreno che si gioca l’esito della riforma. Se il filtro verrà introdotto, cambierà il primo movimento dell’indagine. E il primo movimento è quello che decide il resto.