Il governo Meloni ha deciso che l’impunità non basta più. Bisogna ampliarla, blindarla, renderla sistema. È questo il senso del Decreto Sicurezza 48/2025, approvato in tempi record alla Camera grazie al solito voto di fiducia, stesso copione impartito anche al Senato per il via libera definitivo. Tra le varie norme, il cuore politico e giuridico della riforma sta nell’articolo 31: modifica le regole sulla non punibilità degli agenti dei servizi di intelligence, alterando in modo radicale gli equilibri faticosamente costruiti in precedenza.
Si smantellano i limiti del 2007
Fino ad oggi, il personale dell’Aisi e dell’Aise (i servizi segreti interni ed esterni) godeva di garanzie funzionali previste dalla legge 124/2007: poteva essere autorizzato a compiere determinati reati purché essi fossero indispensabili alle finalità istituzionali e solo previa autorizzazione del Presidente del Consiglio, su richiesta motivata dei direttori dei servizi e sotto il controllo del Dis (sovraordinato ad Aisi e Aise). Un meccanismo pericoloso ma almeno sottoposto a paletti chiari: erano sempre esclusi i delitti che mettevano in pericolo la vita, l’integrità fisica, la libertà personale, la salute, e soprattutto quei reati per cui il segreto di Stato non poteva essere opposto (terrorismo, mafia, stragi, eversione).
Il governo ora cancella quei paletti. Il nuovo comma 4 dell’articolo 17 della legge 124/2007, così come riscritto dal decreto, introduce un’eccezione decisiva: sarà possibile autorizzare operazioni che integrano reati prima vietati, inclusi associazione mafiosa e alcuni reati di terrorismo. Per la prima volta nella storia repubblicana, lo Stato legalizza la possibilità di autorizzare i propri agenti a commettere crimini gravissimi in nome di un generico interesse alla sicurezza.
Come ha spiegato con chiarezza Vitalba Azzollini, questa riforma rompe un argine costituzionale: “Si legittima per legge una fascia di illegalità coperta preventivamente dallo scudo dell’autorizzazione politica”. Con il paradosso che ora si potranno autorizzare azioni riconducibili agli stessi fenomeni – mafia, terrorismo – che i servizi avrebbero il compito di contrastare.
Una zona grigia sempre più vasta
A giustificazione, il governo sventola l’eterno alibi della lotta al terrorismo. Ma la norma non distingue tra prevenzione e collusione: il rischio non è più solo teorico. Si autorizza la possibilità che agenti dello Stato, in attività coperte da segreto, partecipino o assistano organizzazioni terroristiche o mafiose.
Accanto a questa espansione per i servizi, il decreto prevede anche l’estensione della non punibilità ai militari impegnati in missioni internazionali, includendo ora reati informatici come violazioni di domicilio o di segreti. Un’altra zona grigia che rende sempre più opaca la responsabilità penale delle strutture di sicurezza.
Il tutto avviene in un contesto di totale compressione del dibattito parlamentare. Il Decreto Sicurezza è stato convertito alla Camera il 28 maggio 2025 con procedura d’urgenza e voto di fiducia riproposto anche al Senato. Il Parlamento ridotto a passacarte di decisioni già scritte.
Da Stato di diritto a Stato di licenza
Con questa riforma, il governo Meloni porta a compimento una trasformazione inquietante: da uno Stato di diritto a uno Stato di licenza. Dove non esiste più un limite giuridico invalicabile per chi detiene il monopolio legale della forza. Dove le garanzie costituzionali vengono sospese in funzione degli interessi dell’apparato. Dove il controllo democratico scompare dietro l’opacità del segreto di Stato.
E dove, soprattutto, ogni futura inchiesta sulle deviazioni dei servizi sarà destinata a infrangersi contro questa nuova muraglia legislativa. È il trionfo dell’impunità istituzionalizzata. Ed è la fotografia di un sistema di potere che si prepara a blindare sé stesso.